Piazze di Firenze
Autore: Paolo Matina
C’è un
momento, nella giornata, in cui sono una piazza. È quando, al mattino presto,
mi dirigo verso il lavoro e, lentamente, per un breve spazio di tempo, non sono
niente e di nessuno. Se c’è il sole metto gli occhiali scuri così che al senso
di sospensione si aggiunge quello di isolamento ed è come camminare nel vuoto.
Scendo ad una fermata dell’autobus precedente alla solita e mi avvio verso
l’ufficio. All’angolo di una piazza la penetro in diagonale dirigendomi verso
il suo opposto, senza passare dal marciapiede. All’inizio sono teso come quando
si fa una nuotata da soli verso il largo; senti il respiro che ti cresce
dentro, immerso nell’acqua scura e un’ansia (giustificata solo per una nuotata in
alto mare) che ti accompagna e ti isola.
Poi il disagio si trasforma, evolve e muta in piacere, così che l’audacia
compiuta viene ripagata con un leggero formicolio al collo come quello che il
vento trasmette dalla punta dei capelli al corpo intero. Ed è come quando la
mattina la mamma, invece di chiamarmi dalla cucina, mi svegliava con un bacio
sul collo; ancora nel sonno percepivo il calore che si diffondeva e piano piano
mi ritrovavo a galleggiare per qualche secondo in qualcosa che non era più il
sonno ma non era nemmeno il nuovo giorno. Quello che sono in questi momenti non
è niente e non importa a nessuno. Non ho aspettative da realizzare, né conferme
da ottenere: vivo senza uno scopo, libero. La luce mi attraversa senza che
trovi in me niente che la trattenga o la trasformi in qualche raggio colorato.
Sono trasparente, non oppongo nessuna resistenza. A volte riesco a vedermi,
come se fossi quell’anonimo passante che, nella piazza, alza gli occhi dal
giornale distolto dal rumore della spazzatrice stradale e mi osserva
distrattamente. Qualcosa di importante deve pur fare quell’uomo ancora giovane
che pare sicuro di se, anche se qualcosa di insolito subito fa pensare, se non alla
sofferenza, senz’altro ad una forzatura,
come se il peso interiore tradisca il contenuto intimo. “Troppo rigido questo
ragazzo, signora, sia nel fisico che nel carattere”: questo era ciò che la
mamma si sentiva ripetere da tutte le mie insegnanti. Mio babbo al contrario
era orgoglioso di questi giudizi che confermavano la nostra somiglianza.
“Sembra un inglese”, aveva detto di me la nonna di mia moglie quando m’ha
conosciuto, “un tipo fine, sarà un bravo marito” aveva sentenziato. E intanto
cammino, in questo vuoto pneumatico in cui sono al mattino presto nel mezzo ad
una delle più belle piazze di Firenze mentre mi dirigo al mio giorno ed al
Paolo sociale ed ufficiale che tutti da sempre apprezzano e invidiano per la
sua determinatezza. Come la bellezza di una piazza è dovuta, non tanto al vuoto
che sta nel mezzo, ma ai pieni delle pareti che la delimitano, così io al
mattino posso essere ammirato apprezzando i palazzi austeri che ormai sono diventato,
osservato dal vuoto che sta nel mezzo. È questa la felicità di perdersi anche
per poco in mezzo al nostro vuoto, prima di entrare nella rispettabile e nobile
casa che ti sei costruito artificiosamente con tenacia e che ti delimita,
proteggendoti dallo spazio aperto. E poco prima di varcare la soglia della
cortina muraria un leggero alito di vento che solletica il collo e ti ricorda
che prima delle case, dei palazzi, delle piazze, di questi pieni il vuoto
abbracciava tutto e non c’era architettura o costruzione che ne circoscrivesse
le possibilità, come un vento che avrebbe potuto carezzare ogni cosa in un
aperto e naturale paesaggio esistenziale.
Il giorno si
apre, in una celebre città che però potrebbe essere qualsiasi centro urbano, e
ci incamminiamo. Insieme a Paolo Matina
attraversiamo il paesaggio urbano. Di solito, lo facciamo distrattamente e con
la massima velocità possibile, proiettati verso i primi impegni, e invece
l’artista rallenta, attinge le vibrazioni dei luoghi, fino a “perdere” la
propria identità. Non attraversa, si lascia attraversare.
«Piazze di
Firenze» è un racconto che vuole descrivere qualcosa di difficilmente
percepibile, e ci riesce benissimo. Paolo
Matina alterna descrizioni “leggere, aeree”, ad altre “concrete,
tangibili”: accostandole senza farle stridere, accompagna con passo sicuro il
lettore nell’attraversamento di questi spazi solo in parte fisici.
Alla fine del
racconto sappiamo che abbiamo bisogno anche dei limiti che costruiamo con le
nostre stesse mani, ma ne abbiamo bisogno soprattutto per vedere meglio ciò che
c’è oltre, e che altrimenti passerebbe inosservato. Un racconto su cui
riflettere, questo, un racconto da attraversare.
Per contattare
l’autore: pamatina@tin.it
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