martedì 31 gennaio 2012

Recensione al saggio Matteo, l’avvocato dell’opera Opus de Hominibus di Mauro Montacchiesi.

Vanitas vanitatum…


di Lucia Capo

Vanitas vanitatum et omnia vanitas: vanità delle vanità e tutto è vanità. Così recita l’Ecclesiaste, uno dei più bei libri del Vecchio Testamento. Qohelet era un sapiente il quale dopo un’attenta indagine su una esistenza condotta a livelli puramente fisici e corporei, giunge alla conclusione che tutto è vanità.
E’ questo il tema del saggio dell’opera Opus de hominibus di Mauro Montacchiesi dal titolo Matteo, l’avvocato; saggio di raffinato e inquietante fascino. Si apre con questa riflessione sulla vanità; perché questo esordio? L’autore con capillare competenza psicologica  ci descrive Matteo: un bell’uomo tra i cinquanta e cinquantacinque anni, alto m. 1,80, uomo di successo, brillante, simpatico, separato, vive solo in una splendida villa sul Lago di Castel Gandolfo, è uno sportivo e un raffinato viveur. Egli parla troppo, quasi a voler nascondere il proprio Io , quasi a voler impedire agli altri di porre domande, quasi avesse paura di essere penetrato e scoperto. E’ un bell’uomo, un gaudente, ma il suo volto ha qualcosa di misterioso e riconduce l’autore all’immagine dei mostri della villa di Bomarzo; soprattutto egli ricorda il mascherone, quel mascherone che è stato chiamato “Porta dell’inferno”.
Nel mascherone si può entrare e vi si trova una tavola in pietra adibita a banchetti da consumare prima della catabasi, prima della discesa all’Inferno. Sono banchetti annaffiati da vino che inebria e dà l’oblio.
Matteo utilizza l’allegoria di una vita edonistica come oppiaceo delle sue paure e degli incubi della condizione umana. Ecco il suo volto è la porta dell’Inferno, del suo Inferno popolato da mostri, gli stessi mostri che popolano il parco della Villa di Bomarzo. Il parco che venne ideato da Pirro Ligorio a partire dal 1522 e fatto costruire dal principe Orsini in onore dell’amatissima moglie Giulia Farnese. Come per il principe così anche per Matteo l’edonismo è una reazione al dolore e nella villa così come nell’anima di Matteo ci sono dei mostri occulti, capricciosi, eccentrici, assurdi.
Matteo, quindi, percorre il bosco sacro e questo è un percorso di catarsi per arrivare alla sublimazione della propria anima. Ma qual è la sofferenza di Matteo ? forse egli si porta dietro complessi giovanili o forse in ognuno c’è un doppio, un pizzico di follia, un tutto e un nulla dove albergano infinite potenzialità, e come se lui girovagasse in un labirinto di specchi.
L’autore paragona l’anima di Matteo ad un’opera famosa, L’urlo del pittore norvegese Munch. E’ il tormento esistenziale, è come se l’uomo indugiasse su un parapetto che dà su un mare che si tinge di nero e di azzurro. In uno scenario metafisico questa forma tortuosa ha uno sguardo che è delirio, è l’urlo contro l’ipocrisia umana,  un urlo che scende in profondità.
L’urlo e con esso la maschera. Nel rito del mascheramento affiora il doppio, l’ombra prediletta, l’aspetto lungamente rimosso. E’ il mondo degli spettri, delle ombre,  si assiste qui, come nel teatro delle ombre, allo svolgersi di vicende, ma il mascheramento è il rito del vuoto, della perdita, del mancamento?
Originariamente il termine latino persona, voce di probabile origine etrusca, stava a significare “maschera teatrale”, ad indicare , quindi, la parte che un uomo è tenuto a rappresentare, il ruolo che è tenuto a ricoprire.
La dimensione della maschera si apre laddove l’individualità entra in crisi, crisi da intendere e come ricerca di sé, di qualcosa che non si ha, e come perdita, come mancamento.
Lo stato di sogno è la condizione della vita in maschera che diviene esperienza di delirio, di metamorfosi e di smarrimento. Alla base del mascheramento è la vita ebbra e smodata, l’eccesso , il parossismo collettivo, la festa.
E Callois in “Les jeux e les hommes, la masque e la vertige” nota che le maschere fanno la loro apparizione nel corso della festa, “ interregno di rovinoso furore e instabilità”, in cui tutto ciò che al mondo c’è di stabile e ordinato viene provvisoriamente abolito per riuscirne vivificato… la festa, il dilapidare i beni accumulati, la sregolatezza divenuta regola e ogni norma viene capovolta dalla presenza contagiosa delle maschere che fanno della vetigine collettiva il punto culminante e aggregante dell’esistenza pubblica.
Ricordo un’opera straordinaria, “Lo straniero”, di A. Camus, ove il protagonista si augura che la folla lo accolga con grida di odio. E’ la storia di un uomo che viene processatoo e condannato dalla società non perché ha ucciso ma perché  alla presenza della madre morta ha bevuto  un cappuccino e dopo il funerale ha visto un film comico.
Pertanto non ha rispettato il suo ruolo e la sua società “dove tutto è vero e dove niente è vero” lo ha condannato.
L’autore ci conduce attraverso la ritualità della perdita e della resurrezione dove la strada che porta alla riscoperta di sé passa attraverso gli abissi e dove negazione e perdita costituiscono il prezzo che bisogna pagare alla presenza.
Il perdersi è il primo atto del ritrovarsi.
Si può notare come in questo inquietante saggio l’autore faccia un’esplorazione profonda e uno scavo nell’anima, considerata nel suo giusto spirito notturno aldilà della sua lucente apparenza.

Imbolc - Candelora: feste della luce crescente



La luce che è nata al Solstizio d’Inverno comincia a manifestarsi all’inizio del mese di febbraio: le giornate si allungano poco alla volta e, anche se la stagione invernale continua a mantenere la sua gelida morsa, ci accorgiamo che qualcosa sta cambiando. Le genti antiche erano molto più attente di noi ai mutamenti stagionali, anche per motivi di sopravvivenza.
Questo era il periodo più difficile dell’anno poiché le riserve alimentari accumulate per l’inverno cominciavano a scarseggiare. Pertanto, i segni che annunciavano il ritorno della primavera erano accolti con uno stato d’animo che oggi, al riparo delle nostre case riscaldate e ben fornite, facciamo fatica a immaginare.
Se sovrapponiamo la Ruota dell’Anno al nostro moderno calendario, la prima festa che incontriamo cade l’1 febbraio. Presso i celti l’1 febbraio era Imbolc (pronuncia Immol’c).
(…)
Imbolc è una delle quattro feste celtiche, insieme a Beltane, Lughnasadh e Samhain, dette “feste del fuoco” perché l’accensione rituale di fuochi e falò ne costituiscono una caratteristica essenziale. In questa ricorrenza il fuoco è in particolare considerato sotto il suo aspetto di luce, questo è infatti il periodo della luce crescente.
(…)
Nell’Europa celtica era onorata Brigit, dea del triplice fuoco; infatti era la patrona dei fabbri, dei poeti e dei guaritori. Il suo nome deriva dalla radice “breo” (fuoco): il fuoco della fucina si univa a quello dell’ispirazione artistica e dell’energia guaritrice.
Brigit, figlia del Grande Dio Dagda e controparte celtica di Athena-Minerva, è la conservatrice della tradizione, perché per gli antichi Celti la poesia era un’arte sacra che trascendeva la semplice composizione di versi e diventava magia, rito, personificazione della memoria ancestrale delle popolazioni. La capacità di lavorare i metalli era ritenuta anch’essa una professione magica e le figure di fabbri semi-divini si stagliano nelle mitologie non solo europee ma anche extra-europee; l’alchimia medievale fu l’ultima espressione tradizionale di questa concezione sacra della metallurgia.
(…)
I Carmina Gadelica, una raccolta di miti, proverbi e poemi gaelici di Scozia, raccolti e trascritti alla fine dell’800 dal folklorista scozzese Alexander Carmichael, riportano la seguente filastrocca:

“La mattina del giorno di Bride
Il serprente uscirà fuori dalla tana
Non molesterò il serpente
Né il serpente molesterà me.”


Il serpente appare come uno degli animali-totem di Brigit. In molte culture il serpente o drago è simbolo dello spirito della terra e delle forze naturali di crescita, decadimento e rinnovamento. Nel giorno di Bride il serpente si risveglia dal suo sonno invernale e i contadini ne traevano il presagio della fine imminente della cattiva stagione.
(…)
In un’altra area culturale europea, nell’antica Roma, i primi giorni di febbraio erano sacri alla dea Februa o a Giunone Februata. “Februare” in latino significa purificare, quindi febbraio è il mese delle purificazioni (anche la febbre è un modo per purificarsi usato dal nostro corpo!). Processioni in onore di Februa percorrevano la città con fiaccole accese, simbolo di luce e, allo stesso tempo, di purificazione. Un’altra usanza, legata anche a rituali di fertilità, erano i Lupercali: i Luperci, sacerdoti di Fauno, correvano per le strade vestiti solo con una pelle di capra e con una frusta (anch’essa fabbricata con strisce di pelle di capra) con le quali battevano le giovani spose per propiziarne la fertilità.
La Chiesa, per combattere queste usanze, istituì processioni con candele, alle quali a partire dall’XI secolo aggiunse la benedizione delle candele per gli altari. Col nome di Candelora o Candlemas (nei paesi anglosassoni) è nota la festa cristiana del 2 febbraio, denominata “Presentazione del Signore al tempio”. Ma è evidente che la nuova religione non ha potuto modificare il significato autentico della festa, un significato che è profondamente incarnato nella Natura e nello spirito umano. Il legame della festa con le candele, la purificazione e l’infanzia, sopravvisse nell’usanza medievale di condurre le donne in chiesa dopo il parto a portare candele accese.
L’idea di una purificazione rituale in questo periodo è rimasta forte nel folklore europeo. Per esempio, le decorazioni vegetali natalizie vengono messe da parte e bruciate alla Candelora per evitare che i folletti che in esse si sono nascosti infestino le case. Il concetto di purificazione è il presupposto di una nuova vita: si eliminano le impurità del passato per fare posto alle cose nuove. Alcuni gruppi neopagani europei festeggiano Imbolc accendendo candele che sporgono da una bacinella d’acqua. Il significato è quello della luce della nuova vita che emerge dalle acque del grembo materno, le acque lustrali di Imbolc che lavano via le scorie invernali. Un antico detto celtico ricordava come fosse una buona cosa lavarsi mani e viso a Imbolc!
La pianta sacra di Imbolc è il bucaneve. È il primo fiore dell’anno a sbocciare e il suo colore bianco ricorda allo stesso tempo la purezza della Giovane Dea e il latte che nutre gli agnelli.

(brani tratti da Feste pagane di Roberto Fattore)








Il Cerchio della Luna - a cura di Eufemia Griffo



Un nuovo, splendido progetto artistico a cura di Eufemia Griffo: tra cicli e lune, passaggi e feste sacre, ancora una volta la scrittura ci aiuta ad illuminare il buio.

Hanno partecipato:

Arashisei
Artistapaolo2
Davide Benincasa
Etain
Eufemia
Flavia
Francesca
Jalesh
Lucia
Omar
Rosemary
Tetractys


Per informazioni e per scaricare l’e-book, cliccate qui.

lunedì 30 gennaio 2012

Andrea Guida espone al Palazzo Civico delle Arti

AGROPOLI (SA)
SABATO 4 FEBBRAIO AL PALAZZO CIVICO DELLE ARTI 
ORE 11.30
MOSTRA ANTOLOGICA 1952-2012
ANDREA GUIDA


"QUADRI CHE FISSANO GLI OCCHI
(ALFONSO GATTO 1974)

INTERVERRANNO
IL SINDACO DI AGROPOLI
FRANCESCO ALFIERI
ASSESSORE ALL’IDENTITÀ CULTURALE
FRANCESCO CRISPINO
SOPRINTENDENTE SA-AV-CE- BN
ADELE LAGI
MODERA  
LAURA DEL VERME

ORARIO D’APERTURA 10.00./12.00 - 18,00 /20.00
LUNEDI CHIUSO

Presentazione ad Agropoli

AGROPOLI RIDENS

Aula Consiliare, Agropoli (Sa)
Venerdì, 17 febbraio
alle ore 17,00
GLI OCCHI DI ARGO

presenta

BENVENUTI IN CASA ESPOSITO



Pino Imperatore
Giunti Editore - Firenze

Interverranno
il Sindaco
Avv. Francesco Alfieri
l’Assessore all’Identità Culturale
Francesco Crispino

Recensione Critica
Vito Rizzo
Letture di
Annamaria Perrotta
Angela Paparella
Giovanna Chirico
Enrico Giuliano

Lunedì Poesia - Silvana Intieri

Lunedì poesia


  
Un angelo di nome Yara

eri un fiore un piccolo fiore
ti stavi schiudendo delicatamente alla vita
un fiore profumato che con la sua delicata essenza
 inebriavi i cuori di mamma e papà.
Ora sei un angelo
volato nell'immensità della volta celeste
librando l'ale come una libellula leggiadramente
come quando ti esibivi volteggiando
al ritmo di musica soave.
Danzerai attorniata dalle stelle e dalla luna
spettatrici appassionate che applaudiranno
senza sosta la tua bravura. ciao piccolo angelo di nome Yara



Silvana Intieri


Per contattare l'autrice: silvana.intieri@libero.it 

Sguardo nitido e particolarmente attento alla quotidianità "piccola e semplice", quello di Silvana Intieri. Ci insegna la lezione forse più preziosa, per un artista: il suo compito principale può e deve essere quello di soffermarsi sull'essenziale e di renderlo visibile a tutti, tutti coloro che sono disposti a non lasciarsi travolgere dagli eventi rumorosi e superficiali della vita.

domenica 29 gennaio 2012

L’ebbrezza e il mascheramento

di Lucia Capo

Un singolare racconto del Romanticismo tedesco, forse ispirato da un’antica leggenda spagnola è Peter Schlemihl di Adalberto Von Chamisso, apparso nel 1814. Vi viene raccontata la storia di Peter Schlemhl e il suo patto con il diavolo, consistente nel vendere a costui la sua ombra, in cambio della borsa di Fortunatus, in cui si può attingere denaro.
Peter si accorge presto del fatto che un uomo non può vivere senza ombra, getta via la borsa fatata e comincia un viaggio di espiazione. Il discorso riguarda Nietzsche in rapporto al tema della maschera. Questo concetto riporta ad altri come quelli di finzione, illusione, verità diventata favola, che vengono adoperati in generale per definire e discutere il problema del rapporto dell’uomo con il mondo dei simboli. Nessuna comunicazione mendace è però tale che non possa essere decifrata, capita, smascherata attraverso la lettura “sintomatica” di segni e segnali non–intenzionali , che tradiscono l’intenzione segreta. La pratica analitica con la riduzione delle razionalizzazioni e l’interpretazione di sogni, lapsus, sintomi, non è altro , in fondo, che una tecnica di smascheramento.
Il mascheramento non è mai una cosa privata: ha sempre un aspetto pubblico e rituale. La vicenda di morte e resurrezione (perché di  questo si tratta) non si risolve in un’avventura individuale: ha bisogno di una sanzione sociale. Ci si maschera sempre per il gruppo, non mai per se stessi. Nel rito del mascheramento, affiora il doppio, l’ombra prediletta, l’aspetto notturno lungamente rimosso.
La dimensione della maschera si apre laddove l’individualità entra in crisi: crisi da intendere e come ricerca di sé, di qualcosa che non si ha, e come perdita, mancamento.
Lo stato di sogno è la condizione della vita in maschera, della smemoratezza di sé. L’individualità è assente, proiettata in un altrove, che è il mondo degli spettri, delle ombre e dei doppi.
Si assiste qui, come nel teatro delle ombre, allo svolgersi di vicende lievi, in cui si è coinvolti e da cui nello stesso tempo si è distanti ed estraniati.
La danza e il mascheramento sono riti del vuoto, della perdita e dell’assenza, metafore del supremo mancamento , della morte.
Raffigura qualcosa la danza? Nulla o forse tutto, o forse tutto e nulla, il divenire, lo scorrere, il tramutarsi, la fiamma.
Alla base dell’ebbrezza della danza è l’atto puro delle metamorfosi, la sua rappresentazione. Chi danza, Athikté, “ corre inseguendo fantasmi” dichiara la propria inesistenza con leggerezza inesauribile, s’inebbria dell’eccesso dei suoi mutamenti.
“Quella che era là una donna è divorata da figure innumerevoli. Una folla di spettri a circonda, da lei stessa generati fuggendoli” (P. Valery, L’Ame e la Danse, 1925).
Non si tratta che di ombre e queste non sono che immagini dell’altro-da-sé, che ciascuno reca e cela in se stesso: “Sono… io… la tua ombra!  Tu… sei colui che ho più a lungo seguito e rincorso… dovunque ti sei seduto, mi sono seduta anch’io”.
Attraverso la rappresentazione e l’intensificazione vertiginosa e parossistica, nella danza e nella maschera, il vuoto, il risucchio fondamentale, l’assenza vengono esorcizzati.
Il rito della perdita e della morte, per un misterioso capovolgimento enantiodromico (corsa all’opposto dell’Io acquisito), si rivela anche il rito della nascita, della resurrezione e della presenza.
Mascherarsi è possibile solo nei momenti di sospensioine festiva del mondo abituale: è quindi una pratica di straniamento. Nell’abituale ciascuno è quello che è, contratto nei propri confini, chiuso nelle proprie difese. Solo quando  nell’abituale si creano delle fenditure, dei solchi è possibile mascherarsi, identificarsi con l’altro a lungo segregato.



Trama:
Un giovane povero, Peter Schlemihl, giunto in una nuova città in cerca di lavoro si reca presso il signor Thomas John con una lettera di raccomandazione. Lì incontra uno strano uomo (che è in realtà il demonio) che, deciso ad acquistare la sua ombra, gli offre in cambio una borsa magica, dalla quale è possibile estrarre all'infinito monete d'oro. Egli rimane inizialmente stupito dall'offerta, ma alla proposta delle monete d'oro accetta lo scambio.
Da quel momento iniziano le sue difficoltà: le persone rimangono stupite e spaventate da quest'uomo a cui manca l'ombra, e lo rifiutano in quanto è diverso e strano.
Neanche l'oro riesce a consolare la sua solitudine e ad eliminare le difficoltà, che lo costringono a scappare dalla città in cui era giunto. Lì viene accolto come un benefattore grazie all'aiuto del suo fidato servitore Bendel, e viene ricoperto di tutti gli onori.
Egli rimarrà tuttavia deluso e infelice a causa dell'impossibilità di sposare la donna che ama, Mina, a causa della resistenza dei suoi genitori, quando scoprono che il loro promesso genero non ha un'ombra.
Peter decide allora di fuggire dal mondo civile, gettando via la borsa di denaro, causa dei suoi problemi, e donando le ricchezze rimastegli al fedele Bendel. Viene raggiunto dall'uomo con la giacca grigia, che è in realtà un demonio, che gli propone di barattare la sua ombra in cambio dell'anima; Peter tuttavia rifiuta questa proposta.


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Un ringraziamento

Un ringraziamento va a tutti i presenti!
Mi preme ringraziare sentitamente le numerevoli persone, che ieri sera hanno preso parte alla presentazione del libro Opus de Hominibus di Mauro Montacchiesi.
La sala era piena di tantissime persone, che hanno preso parte all'evento, contribuendo, con la loro presenza, alla realizzazione dell'incontro... magnifico!
In rappresentanza dell'Associazione Artistica e Letteraria Gli Occhi di Argo, desidero ringraziare tutti i numerosi soci, gli amici e i simpatizzanti.
La sala da noi scelta, ieri, non riusciva a contenere la vostra presenza così copiosa, questo ci ha molto onorato, ma ci rende anche consapevoli di avere maggiori esigenze per il bel gruppo che sempre più cresce.
E cresce in tutti i sensi: in affiatamento, voglia di fare, in proposte, progetti, ambizioni. Cresce culturalmente e umanamente.
E così, Agropoli cresce e diventa "salotto letterario", diventa cenacolo d'artisti, d'intellettuali, letterati, poeti, filosofi.
Desidero ringraziare tutti coloro che sentono di far parte de Gli Occhi di Argo e di questa realtà che diventa gruppo.
Grazie!
Milena Esposito



“Opus de Hominibus” ad Agropoli

Ha avuto un grande riscontro, ieri pomeriggio, la presentazione della raccolta di saggi “Opus de Hominibus” di Mauro Montacchiesi.
Grazie agli interventi di Luciana Capo, Antonella Nigro e Antonio Capano, è stato possibile, per i presenti, conoscere più da vicino quest’opera sicuramente complessa e particolarmente ricca di contenuti.
Grazie all’attrice Angela Paparella che ha dato magistralmente voce all’autore.
Grazie a Vito Rizzo per la sua sempre preziosa collaborazione.
Al termine delle relazioni, è stata ascoltata l’intervista audio telefonica all’autore realizzata da Andrea Bobbio, che cura la trasmissione culturale “Caleidoscopio” per Nuova Radio Pieve di Tortona (Alessandria).
Vi segnaliamo anche il bell'articolo di Vince Esposito per il "Giornale del Cilento" dedicato all'evento.

Ecco le foto dell’evento:
















Opus de Hominibus

Scheda di Antonio Capano sul libro di

Mauro Montacchiesi, Opus de Hominibus

L’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia in provincia di Catania ci propone la felice edizione di un volume scritto nella collana diretta da Giuseppe Manitta: ‘Opus de hominibus’ di  Mauro Montacchiesi che, vincitore di numerosi premi nel campo letterario, si è ora impegnato, pur senza un apparato di note di riferimento che ci avrebbe offerto un orientamento sugli studi nei settori dibattuti, nella complessa saggistica di un’ampia articolazione tematica.
A colui che  nel volume in trattazione ha  letto saggi che ne attengono la competenza, nello specifico quella dell’antichità, soprattutto nel settore storico ed archeologico, non possono essere sfuggite alcune peculiarità dell’opera , opportunamente messe in risalto nella prefazione del Montacchiesi: la scrupolosità nell’affrontare le tematiche, l’esposizione chiara e lineare , la modenità del linguaggio, l’intento dichiarato di approfondire il pensiero dei vari personaggi trattati,  di penetrare nel significato dei loro atti non senza inquadrarli nei loro tempi e fornire su di essi  un metro di giudizio, se possibile, anche nel confronto con il nostro presente. E’ in questa location che  l’autore pone sul set confronti impossibili ma dal chiaro valore didascalico tra personaggi del mondo antico e contemporaneo che ritroviamo nel dialogo tra Seneca ed i comici Ettore Petrolini ed Edoardo De Filippo sul tema filosofico della vita e della morte o tra un netturbino e Cicerone entro uno spiritoso linguaggio dialettale romanesco che ci fa comprendere che non molto è cambiato tra il mondo attuale del “monnezzaro” ed i tempi di Cicerone. Questi, e l’autore con lui, non  accetta che lavoratori stranieri europei ed extraeuropei stiano per prendere il sopravvento nella società odierna, ma dimentica  che il mondo romano era diventato a seguito delle conquiste un coacervo di popoli che progressivamente presero il sopravvento nelle alte sfere dell’impero, fino a rappresentare gli stessi imperatori.
L’antichità romana vive ancora nell’esperienza quotidiana di Bellomo che, sempre pronto alla battuta, che ci ammoderna il tempo passato,  entra “in medias res”, nel cuore della tematica, offrendoci una ironica riflessione sul suo cognome, ponendo come premessa il detto degli antichi romani: “nomen atque omen”, “il nome stesso è un presagio”; ciò che per lui sa quasi di beffa, essendo alto m. 1,60, calvo e con pancetta.
A Roma, una città che ancora conserva le vestigia e lo spirito della “Caput Mundi”, il nostro autore porta a spasso per l’Appia antica il suo fedele cane che i condomini del palazzo in cui vive con la madre novantenne chiamano Casanova; ed egli non può fare a meno di notare che una cagnetta, una cockerina del condominio, con cui quello ha una relazione si chiama ellenicamente Emerocallide, cioè “Bella di giorno” per la sua dinamica attività.
Scrivere per Bellomo è una esigenza spirituale che lo fa esprimere intensamente e cordialmente come nell’esperienza di terapia di gruppo che gli viene proposta dallo psicoterapeuta, poi amico, Osvaldo, che più di tutti lo conosce, dichiarandogli “ego te intus et in cute novi”: “io ti conoso dentro e nella pelle”, soddisfacendo  l’interesse del nostro Autore per i proverbi e i detti antichi, anche se spesso non ne cita la fonte come in quest’ultimo caso che è da riferirsi alle Satire di  Persio Flacco ( III, v. 30) che ci presenta il difficile paradigma dell’essere umano che non mostra nell’apparenza quello che è veramente. Lo esplicita anche  il detto che aggiungo e che si legge nelle Lettere (125) di San Gerolamo: Intus Nero, foris Cato: Dentro Nerone, fuori Catone, che in fondo ci introduce anche un altro dei temi trattati in questa serata, quello della maschera, che il m ondo etrusco/romano denominava persona.
Quanto ci proviene dall’antichità romana  pone numerose difficoltà  a chi decide di condurre una seria analisi  dei fatti  accaduti, tra cui  la parzialità della conoscenza dei personaggi che sono stati protagonisti di azioni eclatanti, spesso crudeli, che nel caso degli imperatori romani hanno impresso una profonda traccia nel secolo in cui sono vissuti . Gli aspetti della loro vita, che vengono  presi in considerazione dagli osservatori contemporanei, dimostrano spesso  un metro di giudizio che  proviene  dal loro effettivo e personale interesse, che li ha condotti a far parte di un entourage principesco  o ad essere ostacolati o persino perseguitati dagli eredi dell’imperatore.
Gli intrighi di corte, le mire irrefrenabili di potenza di chi era al potere non era oviamente retaggio esclusivo dell’antichità ma sono avvenuti in ogni tempo dell’uomo, basta pensare ad un altro accorato saggio di Bellomo che tratteggia efficacemente il carattere ed i progetti di Filippo IV di Francia, detto i Bello, che si macchiò, tra l’altro, della decimazione di Ebrei , anche se in questo caso non ricordati nel significativo “Giorno della Memoria” che si è celebrao ieri 27 gennaio in ricordo dell’apertura del campo di Auswitz nel 1945, allora , negli anni 1320-1321 ritenuti colpevoli di epidemie di peste, che erano seguiti alla distanza di non molti anni  dalla soppressione nel 1314 dell’Ordine dei Templari ed alla condanna al rogo del loro Gran Maestro Jaques  de Molay al fine di impossessarsi dei loro beni.
Ma il nostro giudizio non può esimersi dal tener conto degli usi e costumi dei tempi in cui sono vissuti e dal principio che Orazio, citato dall’Autore, ci richiama nelle Epistole: “Non meravigliarsi di niente: / questo è forse, Numicio, / il solo, unico principio / che possa rendere felici”.
Se prendiamo ad esempio il saggio su Caligola, per i quale si può richiamare anche una trattazione pubblicata nella rivista “Archeo” del febbraio del 2007,  Bellomo fa propria una esigenza esegetica di stretta attualità ma che già da tempo si è affermata nella storiografia e che può essere ancora  una novità, speriamo, solo per la banalità ed arretratezza di metodo di qualche disinformato divulgatore della storia antica.
Dichiarato è l‘intento dell’autore di enfatizzare quanto di positivo ha compiuto l’imperatore, “intessendo rquisitorie contro i suoi principali accusatori, mettendo in risalto le figure di due imperatori successivi che la moderna storiografia continua a definire in maniera non oggettiva”; ma occorre anche  precisare, io affermo, che l’oggettività non fa parte della storiografia che è interpretazione di fatti e personaggi che non riusciremo mai a comprendere pienamente, non solo per mancanza di fonti complete e di trattazioni antiche di diversi “partiti” (anche quelli politici), come si ribadisce in un saggio su Nerone, apparso su un recentissimo numero di “Archeo”,  ma perché  essi stessi erano guidati da passioni e da ideologie.
Non è fondamentale per una trattazione storica che non sia conosciuto il suo luogo di nascita di Caligola, certamente uno degli accampamenti militari provvisori  costruiti dal padre, il grande e amato  generale Gaio Gulio Cesare Germanico, la cui moglie Agrippina Maggiore era figlia di Giulia, a sua volta figlia di Augusto. Per la sua esperienza nell’esercito romano ebbe il soprannome di Caligola, dal sandalo dei legionari. Fu adottato dallo zio Tiberio perché lo conducesse quale erede designato al soglio imperiale. La sua vita fu costellata di drammi: perse a sette anni il padre probabilmente avvelenato, secondo alcuni storici  da lui stesso. Esiliata da Tiberio la madre ad Ercolano, fu poi adottato dalla affezionatissima bisnonna Livia sul Palatino e dopo la sua morte dalla nonna paterna Antonia Minore, presso la cui casa conoscerà giovani principi di Tracia, cui assegnerà potenti regni e diventerà amico di Lucio Vitellio, il cui figlio Aulo sarà imperatore nel 69 d. C. L’ombroso Tiberio lo accolse quindi nella sua villa di Capri ; ed al nipote, che si mantenne prudente e defilato su consiglio di amici più esperi,  fece ascendere i gradi della carriera religiosa e civile . Morto l’imperatore nel 37 d. C. presso la base della flotta di Miseno, non prima di aver  nominato suo successore anche il nipote Tiberio Gemello, Caligola  diventò per iniziativa del pretoriani il solo Princeps e  fu imperatore a 25 anni, erede della nobile dinastia dei Giulio-Claudii. La sua ascesa fu per tutti l’agognata liberazione dalla dittatura di Tiberio durata ben 23 anni e venne considerata  la rinascita della pax augustea. Con atto di benevolenza adottò il  Tiberio Gemello, nominandolo princeps juventutis e, fedele alla memoria dei membri della famiglia perseguitati da Tiberio , raccolse le ceneri della madre e del fratello portandole con grandi onori a Roma; in memoria di Agrippa celebrò annualmente  solenni ludi circensi, ludi che Tibero aveva molto limitato e che Caligola  promosse  insieme agli spettacoli scenici,  rinviando le vertenze fissate nei giorni di festa; inoltre, volle lo zio Claudio nel consolato. Perseguì l’appoggio del popolo che, come i pretoriani ed i regni vassalli, fu oggetto di abbondanti elargizioni di danaro, ebbe cordiali rapporti con i regnanti stranieri come Artabano, re dei Parti, “alleggerì i dazi – precisa Bellomo – abrogò la tassa sulle compra-vendite e ridette dignità alla magistratura e alle Assemble. Fece bruciare gli atti e le lettere di coloro che avevano partecipato alla rovina dei suoi familiari, ordinò il rientro degli esiliati politici e dette diffusione agli scritti già censurati dal Senato.
Tiberio Gemello, alla fine del 37 d. C., sospettato di aver cospirato contro l’imperatore si tolse la vita, seguito da Silano, suocero di Caligola, e nel 38 da Macrone, prefetto del Pretorio, che aveva pianificato la sua ascesa.
In quell’anno morì la sorella-amante Livia Drusilla, la prima donna ad essere consacrata “Diva”, secondo un modello di dinastia ellenistica confermato dal matrimonio di Tolomeo IX con Cleopatra IV di Egitto.
Nel 39 d. C. si acuirono i contrasti con il Senato che erano stati mantenuti sereni in una prima fase per l’affermazione del potere, e che poi  degeneranno con accuse di ipocrisia, di captatio benevolentiae , e di trame ai suoi danni verso alcuni di essi i cui beni saranno confiscati; nominò il suo cavallo “Incitatus” senatore  attestando che il Senato per il basso profilo raggiunto poteva essere implementato anche dal suo cavallo.
Questi contrasti non gli impedirono di iniziare nel 39 d. C. l’agognata campagna contro la Britannia e i Germani, eliminando prima  il legato della Germania Superio Cornelio Lentulo Getulico, troppo potente, prodigo di  molte concessioni ai suoi soldati a scapito della disciplina ed aveva aderito alla cospirazione di Lepido, cognato di Caligola; lo rincalzò con Galba che sarebbe diventato imperatore. Avrebbe voluto essere acclamato Dio, secondo  le tradizioni orientali ed ellenistica  ed una tendenza al principato assoluto che si sarebbe affermata a partire dal II sec. d. C. ; per questo fu accusato di insania, che per i suoi detrattori  si sarebbe rivelata quando dovendo attendere la primavera  prima di attraversare la Manica  impegnava i soldati nel raccogliere conchiglie in un fiume trasparente.
Ritornato in patria nel 40  e fatto giustiziare Tolomeo sovrano di Mauretania, reo di cospirazione, lo stesso Caligola dopo tre anni di potere venne trucidato nel 41 d. C. a 29 anni con trenta pugnalate da pretoriani mentre si ritirava nel palazzo circa l’una dopo un spettacolo allestito per le feste augustali; venne uccisa anche la moglie Cesonia e sfracellata contro una parete la piccola figlia Drusilla, il che conferma il clima di crudeltà dell’epoca. Il Senato, riunito dai consoli, elencò una lunga sequela di misfatti attribuiti a Caligola, il cui corpo dopo brevi esequie fu bruciato e sepolto nella nuda terra.Fu nominato imperatore l’equivoco zio Claudio che avrebbe assistito all’esito della cospirazione nascosto dietro una tenda. Ma l’intervento del popolo che chiedeva documeni e giustizia costrinse il Senato a far  suicidare i protagonisti dell’assassinio. Svetonio, la fonte più completa su Caligola, appartenente anch’egli agli ambienti di corte,  pose la sua attenzione “su aneddoti piuttosto che su vere azioni, seguendo la tradizione della presunta insania di Caligola. Ma molti documenti dell’epoca, ribadisce Bellomo, attestano la magnificenza del suo operato, la sua sagacia mentale, la capacità della dialettica e della convinzione.
Ma ribadiamo con la serena coscienza di chi ha un po’ navigato nel mare dell’esperienza ciò che leggiamo nel terzo atto del dramma di Camus su Caligola, rappresentato nel ‘44 (1944 non tre anni dopo la morte dell’imperatore): attraverso la preghiera-consacrata a Caligola-Venere, momento centrale della festa, i senatori invocano (diremo insieme a Camus): "Svelaci che la verità di questo mondo è di non possedere alcuna verità…":filosofica deduzione per un mondo che non cambia e di cui occorre soltanto prendere coscienza, non senza una sentita e drammatica distonia cosciente tra il nostro Io e la realtà che ci circonda, nella quale si concretizza il concetto dell’assurdo e dove ci è dato comunque di vivere non passivamente.

*

ALESSANDRA PIGLIARU, "IL TEATRO DELL'ASSURDO"

A. Pigliaru, Il Teatro dell'Assurdo: Caligula di Albert Camus, "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_12.htm

Se per Sartre l'Assurdo è la gratuità dell'esistenza, alla quale si può reagire solo con l'auto-inganno della malafede (A.Pigliaru, "Il Teatro dell'Assurdo. Huis Clos di J. P. Sartre ", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm), per Camus l'Assurdo è uno stare sempre presenti a se stessi. La presenza dell'uomo a se stesso comporta che il sentimento dell'Assurdo nasca nello spirito umano in tensione perenne con la sua stessa vita: la frattura dell'uomo con la sua vita è l'essenza della rivolta esistenziale dell'uomo assurdo, rappresentato scenicamente nel dramma camusiano Caligula.
Mentre per J.P. Sartre l'Assurdo è un punto d'arrivo e una realtà da cui fuggire, per Albert Camus l'Assurdo si configura come un punto di partenza. Ne Il Mito di Sisifo Camus rimprovera a tutte le filosofie esistenzialiste di proporre l'evasione: "Con un singolare ragionamento, costoro, partiti dall'assurdo sulle rovine della ragione, in un universo chiuso e limitato all'umano, divinizzano ciò che li schiaccia e trovano una ragione di sperare in ciò che li spoglia" [1].
Per Camus di contro, l'Assurdo sorge nel momento in cui "gli si dà vita", nel momento in cui si mantiene la tensione, straziante e necessaria ad un tempo, tra l'uomo e la sua stessa vita; questa tensione che Camus definisce come "divorzio" lo pone decisamente in antitesi con quanto detto da Sartre [2]. Pur tuttavia Camus si radica nello stesso panorama culturale di Sartre ed erige la sua "struttura di pensiero" su sabbie mobili; mentre però l'uomo sartriano [3] si raggomitola su se stesso, sprofondando nell'abisso di una ragione inconsistente, l'uomo camusiano è teso a ri-trovare se stesso. La nostalgia di unità, la brama d'impossibile è ciò che spinge l'uomo assurdo a valicare i limiti del mondo stesso verso qualcosa di cui neanche egli può dare spiegazione: il "bisogno di senso". Il bisogno di senso trascende il quotidiano e non fa dell'uomo camusiano un rinunciatario.
L'uomo assurdo è ben rappresentato da Caligula, protagonista dell'omonimo dramma camusiano del 1944, rappresentato un anno più tardi dal teatro Hèbertot [4]. Il dramma inizia quando Caligula, caduto in disperazione per la morte di Drusilla, la sua amata, torna a Roma dopo tre giorni di assenza.
"Questo mondo così com'è non è sopportabile. Gli uomini muoiono e non sono felici" [5].
E' la "costante eccezione che è la morte" a porre fine all'Assurdo, quando però si tratta della propria morte; quando invece si tratta della morte degli Altri, noi non possiamo che esserne spettatori. La morte per Camus non è una "possibilità esistenziale" e non dà autenticità alla vita. "Alla luce del destino mortale, appare l'inutilità. Nessuna morale, nessuno sforzo sono giustificabili a priori davanti alla sanguinante matematica che regola la nostra condizione" [6]. Pur tuttavia è di fronte all'automatismo di una vita e di un mondo che "perdono di familiarità" che d'improvviso si manifesta il senso dell'Assurdo. La coscienza dell'Assurdo in Caligula è destata proprio dalla morte dell'Altro. Dall'orrore che "viene dal lato matematico dell'avvenimento" [7] si inaugura un nuovo "movimento della coscienza" attraverso il quale Caligula "fonda" quel conflitto perpetuo tra sé e la sua stessa vita.
"…Come si può continuare a vivere con le mani vuote quando prima stringevano l'intera speranza del mondo?…Mettersi d'accordo con la vita. Darsi delle ragioni, scegliersi un'esistenza tranquilla, consolarsi. Non è per Caligola." [8]
L'intera speranza del mondo, rappresentata dall'amore per Drusilla, si sfalda e la riconciliazione col mondo non può più esistere; l'uomo assurdo accetta la lotta fra sé e la propria vita, fra sé e il mondo, accetta "la rivolta della carne"; vivere l'Assurdo non è dare un nuovo significato alle cose del mondo ma badare solo alle conseguenze di ciò che accade; ciò che accade si "scioglie" dalle possibili qualificazioni per "immergersi" nell'equivalenza del tutto. Al punto in cui l'Assurdo "prende corpo", Caligula non può più darsi delle ragioni: darsi delle ragioni significherebbe "comprendere il mondo" ma "comprendere il mondo, per un uomo, significa ridurre quello all'umano, imprimergli il proprio suggello" [9]. Con la coscienza dell'Assurdo, il mondo non è più familiare, l'Assurdo non può risolversi e l'uomo non trova più conciliazione col mondo. Il mondo "è messo in dubbio" continuamente. Come si configura la lotta tra l'uomo e la sua vita? "…Tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la rinuncia) e l'insoddisfazione cosciente (che non dev'essere assimilata all'inquietudine giovanile)…L'assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso" [10].
E' nel terzo atto del dramma (Divinità di Caligola) che attraverso la preghiera-consacrata a Caligola-Venere, momento centrale della festa, i "mortali" invocano:
CESONIA. "Insegnaci l'indifferenza che fa rinascere gli amori…" [11]
SENATORI. "Svelaci che la verità di questo mondo è di non possedere alcuna verità…" [12]
CESONIA. "…Dacci le tue passioni senza scopo, i tuoi dolori senza ragione. Le tue gioie senza futuro" [13].
La fedeltà di Caligula all'Assurdo è totale: si trova scampo alla infelicità solo accettandone i termini; "dare vita all'assurdo" allora significa accettare la propria situazione, consapevoli del proprio destino senza speranze. Il destino dell'uomo non è "apertura-verso" ma è "attimalità", un po' come la vita di Dongiovanni o di Meursault in cui tutto si equivale. Ciò che conta non è la "qualità" ma la "quantità": si deve cercare di vivere "il più possibile". Vivere dunque non è ricerca di un senso profondo delle cose (almeno apparentemente) ma "un perpetuo confronto dell'uomo e della sua oscurità" [14]. Caligula però è come se superasse il confronto con la sua oscurità e, proteso verso il tentativo di mediare fra la "brama di assoluto" e la "mancanza di un senso che trascende il mondo", esclama:
CALIGOLA. (con voce seria e stanca) Voglio la luna…(poi dirigendosi verso allospecchio) L'impossibile diventerebbe possibile, e qualsiasi cosa cambierebbe, così, d'un colpo [15].
La brama di assoluto, di quella verità caduta in frantumi, è il desiderio di possedere la luna, simbolo del notturno e dell' "envers". E' importante sottolineare come la luna, rappresentata dalla Dea Iside, discenda dal cielo quando il Lucio apuleiano la invochi come salvatrice [16]. Il culto di Iside, insieme a quello di Osiride, è un culto Egiziano che Caligula (come imperatore storicamente vissuto) aveva, insieme ad altri, promosso nel suo regno [17]; Iside, nel mito, ri-dà vita ad Osiride, il suo sposo, ri-componendo il suo corpo fatto a pezzi. Caligula invocando la luna, invoca quindi il "potere guaritore di Iside", il potere di ri-comporre l'Assoluto frantumatosi (il suo amore, forse?). Ma Caligula non è un dio, e senza essere diventato un dio Caligula "morrà in una notte pesante come il dolore umano" [18]

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[1] A. Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1996, p. 32
[2] Vedi A.Pigliaru, "Il Teatro dell'Assurdo. Huis Clos di J. P. Sartre ", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm. E' importante sottolineare la posizione diametralmente opposta di Camus nei confronti di Sartre, ed è Camus stesso che nel 1945 precisa: "No, non sono un esistenzialista. Sartre ed io ci stupiamo sempre nel vedere associati i nostri due nomi…Sartre ed io abbiamo pubblicato tutti i nostri libri prima di incontrarci, tutti senza eccezione...Sartre è esistenzialista, e il solo libro di pensiero che io abbia pubblicato, Il Mito di Sisifo, è diretto contro i filosofi esistenzialisti". In S. Zoppi, Invito alla lettura di Camus, Mursia, Milano 1980, pp. 28,29.
[3] Precisiamo: quando ci si riferisce all'uomo sartriano, lo si fa utilizzando le categorie dell' Essere e il nulla.
[4] Si prenderà in considerazione la seconda stesura del dramma, quella del 1944 appunto; per la storia della stesura di Caligula si rimanda a A. Camus, Théâtre, récits, nouvelles, pref. di J. Grenier, a cura di R. Quillot, Gallimard, Paris.
[5] A. Camus, Caligula in Tutto il teatrto, cit. p. 56.
[6] A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p. 18.
[7] Ivi
[8] A. Camus, Tutto il teatro, cit. pp. 56, 57.
[9] A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p. 20.
[10] Ibidem, pp. 31, 32.
[11] Ne Il Mito di Sisifo Camus si domanda se si debba accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell'assurdo e risponde: "Il corpo, la tenerezza, la creazione, l'azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo insensato. L'uomo vi ritroverà infine il vino dell'assurdo e il pane dell'indiffernza, di cui nutre la sua grandezza"; cit. p. 49. E ancora:"Per l'uomo assurdo…tutto comincia dall'indifferenza perspicace"; cit. p. 92.
[12] D'accordo con Nietzsche "…Le verità sono illusioni, di cui si è dimenticato che sono tali"; F. Nietzsche, Su verità e menzogna fuori dal senso morale, ed. Filema, cit., p.45. Per quanto riguarda il rapporto Camus-Nietzsche, si veda R. Siena, Nietzsche, Camus e il problema del superamento del nichilismo, sta in "Sapienza", Vol. XXVIII, 1975.
[13] "Che cos'è ifatti l'uomo assurdo? Colui che, senza negarlo, nulla fa per l'eterno"; A. Camus, Il Mito di Sisifo, cit. p.
[14] A. Camus, il Mito di Sisifo, cit. p. 50.
[15] A. Camus, Tutto il teatro, cit. pp. 91, 93.
[16] Cfr. Apuleio, Le Metamorfosi o L'asino d'oro, Zanichelli, Bologna 1963, Libro XI, pp. 231 e sgg. Sulle fonti antiche del Caligula di Camus si veda M. Seita, le fonti antiche del Caligula di Camus, sta in "Il Castello di Elsinore", anno XI, 31, 1998; si fa riferimento ad uno studioso, A. J. Clayton, che interpreta il tema dell'astro come "simbolo di profondo rinnovamento"; cit. p. 61.
[17] Cfr. Svetonio, Vita di Caligola, a cura di G. Guastalla, Roma, 1992; pp. 48-50.
[18] M. A. Aimo, Assurdo e rivolta nel teatro di Albert Camus, sta in "Memorie del seminario di Storia della filosofia della facoltà di Magistero", Università di Sassari, 1981.

I giorni della merla e la loro leggenda



Col 29 gennaio cominciano i tre giorni della merla considerati nell’Italia del Nord i più rigidi dell’anno. Una volta nei paesi del Lodigiano i ragazzi si riunivano in questo periodo per scacciare il freddo cantando. A un certo punto della festa le ragazze correvano a barricarsi da qualche parte: per poter entrare nel loro rifugio i giovani dovevano cantare la cosiddetta madonà, una serie di strofe in onore della merla. Soltanto quando le ragazze erano soddisfatte, lasciavano entrare i loro compagni. Per questo motivo ancora oggi nel Lodigiano “cantare la madonà” significa fare una lunga anticamera.
Ma chi è mai questa merla che porta il freddo? Si narra che tanto, tanto tempo fa, quando i merli erano bianchi, una famigliola viveva su una quercia di una villa soffrendo a ogni inverno un freddo tremendo, nonostante mamma merla supplicasse messer Gennaio di essere più mite. Ma il sadico, contento di vederli soffrire, rispondeva monotonamente che quello era il suo mestiere. Un anno la merla cambiò tattica: se ne stette nascosta con tutta la famiglia in modo che Gennaio, non vedendola, si scordasse di tormentarla. Alla fine del mese, che allora era il più breve dell’anno con soli ventotto giorni, la merla uscì fuori al sole e non riuscì a nascondere la soddisfazione di aver gabbato messer Gennaio deridendolo. Ma non aveva fatto i conti con quell’essere vendicativo che chiese tre giorni a Febbraio e li trasformò in una ghiacciaia facendo scendere la temperatura a diversi gradi sotto zero. La neve e il gelo colpirono la famigliola dei merli che rischiarono di congelare.
Quando mamma merla vide uscire del fumo da un camino della villa decise di rifugiarsi su quel tepore insieme con i figli; ma il fumo impregnò talmente le loro penne che la famigliola con i discendenti diventò per sempre nera come la pece e quel periodo fu ribattezzato “i giorni della merla”.

Alfredo Cattabiani, tratto da: Lunario

giovedì 26 gennaio 2012

“Di Libri un Sorso al Bar del Corso”: appuntamento con la saggistica

Protagonista del prossimo appuntamento della rassegna di libri editi “Di Libri un Sorso al Bar del Corso” sarà la raccolta di saggi “Opus de Hominubus” dell’autore romano Mauro Montacchiesi.    







Qui trovate due articoli dedicati all’evento:
Infoagropoli
Il tuo comunicato stampa

Vi aspettiamo sabato 28 gennaio alle ore 16 e 30 presso il “Bar del Corso” – Corso Garibaldi, Agropoli (SA)

Per qualsiasi informazione:
occhidiargo@hotmail.it
Infoline 3395876415

mercoledì 25 gennaio 2012

AGROPOLI RIDENS

Aula Consiliare, Agropoli (Sa)

Venerdì, 17 febbraio 

alle ore 17,00

GLI OCCHI DI ARGO

presenta

BENVENUTI IN CASA ESPOSITO


Pino Imperatore

Le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista
Il rione Sanità, dove è nato il principe della risata Totò, è uno dei più affascinanti e misteriosi di Napoli. Qui vive, con la sua famiglia allargata, Tonino Esposito, orfano di un boss della camorra. Tonino riceve dal clan un sussidio mensile e potrebbe vivere di rendita. Invece si intestardisce a voler imitare le gesta paterne, senza riuscirvi. Perché è goffo, sfigato, arruffone, incapace di difendersi: un antieroe tragicomico, che tra incubi e visioni, ingenuità e imbranataggini, ne combina di tutti i colori.
Uno spaccato divertente e allo stesso tempo crudele della Napoli contemporanea, città dalle mille contraddizioni e dalle tante difficoltà, capace però di non perdere mai la speranza in un futuro migliore.

L'AUTORE

Pino Imperatore

Pino Imperatore è nato a Milano nel 1961 da genitori emigranti napoletani. Vive attualmente ad Aversa, in provincia di Caserta, e lavora a Napoli. Nel 2001 ha ideato e fondato il Laboratorio di scrittura comica e umoristica «Achille Campanile», dal 2005 è responsabile della sezione Scrittura...

martedì 24 gennaio 2012

Un appuntamento settimanale con la poesia



È indetto il Concorso on line Lunedì poesia.
La partecipazione al Concorso è gratuita. Si partecipa con testi inediti.
Solo per le poesie selezionate è previsto un contributo di euro 15,00.
Le poesie selezionate verranno inserite in questo blog, sia nell'home page sia in un'apposita sezione ("Lunedì Poesia") man mano arricchita con i testi di tutti i partecipanti.
Inoltre, ogni testo pubblicato riporterà una breve recensione critica a cura della redazione e il contatto e.mail dell'autore.
Ogni lunedì saranno inserite nuove poesie in questo blog e periodicamente, una volta all'anno, tutte le poesie selezionate saranno pubblicate in un’antologia cartacea impreziosita da recensioni, commenti, immagini originali, testi dedicati, codice ISBN (qui trovi la prima antologia realizzata, qui la seconda uscita).
Molte copie saranno inviate ad artisti, critici letterari, organizzatori di iniziative culturali, per dare ulteriore visibilità ai componimenti inseriti. 
Non c’è nessun obbligo di acquisto dell’antologia Lunedì poesia, l'inserimento è automatico e gratuito per tutte le poesie già inserite on line.

Per partecipare basta inviare a occhidiargo@hotmail.it la propria poesia accompagnata dalla seguente dicitura:

“Dichiaro e garantisco che l’Opera (titolo dell'opera) è di mia creazione esclusiva e di averne la piena disponibilità, nonché la titolarità esclusiva di tutti i diritti alla stessa inerenti, autorizzo l’inserimento e l’uso di questa Opera su tutto il materiale divulgativo evidenziato nel bando Lunedì poesie (blog e antologia)”.
L'oggetto della e.mail deve essere: Lunedì Poesia.
Gli autori delle sole poesie scelte saranno contattati via e.mail. Se vorranno partecipare, faranno il versamento previsto di 15,00 euro.

Le opere inserite nei nostri Concorsi sono di proprietà degli autori.
Gli Occhi di Argo non può essere considerata responsabile di eventuali plagi o illiceità commesse dagli autori e per il concetto delle opere pubblicate. Gli autori sono titolari dei diritti sulle loro opere, fatte salve le nostre pubblicazioni per le quali non potranno richiedere alcun compenso.

Casting



Stiamo selezionando attori ambosessi di tutte le etnie non professionisti per serate a tema (canovaccio o improvvisazione).
Requisiti: età compresa tra i 40 e i 60 anni, residenti in provincia di Salerno o disponibili a pernottamento pagato nel Cilento.
È previsto un gettone di presenza quale rimborso spese di 15,00 euro a serata, vitto e alloggio.
Inviare foto, dati personali e recapiti a occhidiargo@hotmail.it

domenica 22 gennaio 2012

Vi presento Odette

Grazie a Sonia Ruggiero, in casa mia il 21 gennaio è entrata Odette, la silfide.
Odette: il suo nome significa “amica dell’acqua” e “tesoro”.
È un piccolo genio del vento e delle acque, ha poggiato la sua anfora sul bordo della fonte, nel bosco, e si è distesa, ha allargato alla notte le sue immense ali trasparenti e brillantine e si è distesa sotto la luce fioca di un antico lampione, guarda la luna.
(Milena)












sabato 21 gennaio 2012

In evidenza

Concorso letterario dedicato agli Angeli 
    
"Scritto nel Vento"
  I Edizione

1) L'associazione artistica e letteraria “Gli Occhi di Argo” in collaborazione con Bambù di Agropoli indice la prima edizione del concorso di narrativa e poesia “Scritto nel Vento”, per racconti e poesie brevi che saranno pubblicati in un'antologia.
2) Il concorso è gratuito e aperto a tutti senza limite d’età, il tema è gli Angeli.
3) È possibile partecipare inviando opere fino al 31 gennaio 2012.
4) Sono previste due sezioni: narrativa e poesia. Ogni partecipante può inviare un solo racconto o una sola poesia sul tema degli Angeli.
5) Per la categoria narrativa è possibile inviare un racconto della lunghezza massima di una cartella (30 righe per 60 battute; 1800 battute spazi inclusi). Per la categoria poesia è possibile inviare una poesia della lunghezza massima di 30 versi.
6) Le opere non devono essere già state pubblicate.
7) I lavori dovranno pervenire via email, all’indirizzo: occhidiargo@hotmail.it  Devono essere accompagnati da una nota contenente i dati dell’autore: nome e cognome, indirizzo, e-mail, numero telefonico e una breve nota biografica. Nel caso in cui il partecipante sia minore di 18 anni, il materiale dovrà essere accompagnato dalla liberatoria firmata da un genitore o da chi ne fa le veci.
8) La partecipazione al concorso costituisce automatica autorizzazione alla pubblicazione dei lavori inviati senza aver nulla a pretendere come diritto d’autore. I diritti rimangono comunque di proprietà dei singoli autori. La partecipazione vale inoltre come liberatoria per l’uso dei dati anagrafici ai fini del concorso stesso e per l’inserimento nella nostra mailing-list (da cui si potrà richiedere la rimozione in ogni momento).
9) Chiusa l’iscrizione, le opere saranno valutate da una Giuria il cui giudizio sarà insindacabile.
10) I lavori saranno pubblicati gratuitamente nell’antologia “Scritto nel Vento”.

Il primo premio per entrambe le categorie (PREMIO UNICO) consiste nella statua Les Alpes Scritto nel vento di Sheila Wolk.

Tutti i partecipanti riceveranno personale comunicazione degli esiti del concorso.
Per ulteriori informazioni preghiamo di contattare l’associazione via e-mail: occhidiargo@hotmail.it
Il concorso si concluderà nel Cilento in data di stabilirsi con una grande e gioiosa festa dedicata agli Angeli, durante la quale sarà premiata l'opera vincitrice con la statua Les Alpes Scritto nel Vento. Il premio dovrà essere ritirato personalmente dal vincitore.

Le opere inserite nei nostri Concorsi sono di proprietà degli autori.
Gli Occhi di Argo non può essere considerata responsabile di eventuali plagi o illiceità commesse dagli autori e per il concetto delle opere pubblicate. Gli autori sono titolari dei diritti sulle loro opere, fatte salve le nostre pubblicazioni per le quali non potranno richiedere alcun compenso.
Scritto nel vento
opera offerta agli Angeli
riflessioni - cenni d’arte - racconti - poesie

Cristalli di gennaio



In città non lo vediamo, ma altrove il ghiaccio è dappertutto. Il vento spazza la campagna. Nei più gelidi recessi c’è però una promessa di nuova vita.

Gennaio… crudo, pungente, gelido, sferzato da un vento che penetra nelle ossa e congela il sangue. I suoi giorni sono brevi, lunghe le notti, e un timido sole getta un arco diffuso, simile a un riflesso nel cielo blu ghiaccio.
La notte è così piena di luce riflessa che nel cielo si scorgono soltanto la metà delle stelle.
Questo è gennaio, la voce dell’inverno. I suoni dell’inverno pizzicano la pelle delle guance. Il rumore della neve calpestata durante una giornata di fragile gelo, il mormorio del vento notturno che soffia in un boschetto di abeti sulla collina, il lamento di un lago ghiacciato.
Il lamento sibilante della neve non si sente quasi più. Si percepisce ben più nettamente sotto le lame delle slitte. Durante la notte saliva sino al diapason, simile a una nota alta emessa da un violoncello, e si propagava nell’aria con timbro pieno per settecento, ottocento metri, se non c’erano ostacoli.
Faceva rabbrividire, anche se calzavi stivali imbottiti e indossavi un giaccone.
Il suono più minaccioso di gennaio è la voce del ghiaccio. A volte è un rombo gelato, ogni tanto un sordo brontolio. È lo scricchiolio e il lamento dei cristalli che cozzano l’uno contro l’altro, dell’acqua che diviene simile a una lastra d’acciaio. E il ghiaccio stesso è un palco risonante di gemiti e lamenti.
L’inverno presta al ghiaccio la sua voce. La sua avanzata è una delle voci più gelide: negli stagni, nei laghi e nei fiumi dal corso lento, il gelo stende un manto di ghiaccio, limpido come vetro. Il freddo aumenta e il ghiaccio diventa nero mentre si fa più spesso. Quando l’acqua si solidifica, si espande e comincia a premere contro gli argini. Poi, di colpo, la pressione è troppo intensa. Si verifica una spinta colossale, uno squarcio corre lungo il ghiaccio e l’intera distesa gelata risuona come un gigantesco tamburo.
Durante le lunghe notti di fioca luce stellare, spezzate dal morso di gelidi venti, la neve a volte cessa di cadere, ma il ghiaccio rimane. La sua eco rimbomba mentre si solleva e si spezza in mille crepe, troppo grande ormai per restare nel suo letto.
Che dire dei venti dell’inverno? È sufficiente che una tiepida luce solare li moderi, e si trasformano in innocue brezze irrequiete che rincorrono foglie e residui d’autunno…  Ma in una rigida notte di luna piena, essi sferzano i fianchi dei monti e inondano le valli, simili a marosi scagliati contro una costa rocciosa. Quando sono carichi di neve, la tormenta infuria. Qualche volta il vento di gennaio sembra provenire dalla stella più lontana, dal cupo abisso delle tenebre cosmiche, tanto remota e impersonale è la sua voce. Altre volte è più amichevole, giocherellona con il fumo di un camino oppure zufola come un ragazzino. Punge le orecchie e pizzica il naso, poi fugge via, danzando.
Il vento di gennaio ha cento voci. È un sussurro, un urlo, un rombo. Ruggisce tra le querce brulle e sibila violento giù per i pendii. Sospira sommesso tra i pini e gli abeti.
La luna d’inverno è la regina del cielo. In fretta si sbarazza del sole e poi illumina la gelida notte, immensa, lontana, solitaria. Si mette a danzare una maestosa pavana sulla superficie ghiacciata di un lago silenzioso, oppure disegna capricciosi geroglifici sulla neve sotto gli alberi spogli. Ma è fragile come vetro soffiato, affilata come l’artiglio di un gufo famelico. La luna d’inverno fa della notte un incantesimo, ma è aspro e gelido sortilegio. La volpe lo sa, e così pure la lepre frettolosa che sfreccia di ombra in ombra.
Un viandante notturno percepisce questa magia, dal suo fiato che si condensa in una nuvola luminosa e dal luccichio lontano di un tetto.
Il chiaro di luna di mezzo inverno non è il bagliore di un focolare riflesso nel cielo: è la fredda bellezza di un intero inverno che si avvolge come in un mantello di gelo dentro una lunga notte di gennaio.
Il crepuscolo invernale è altrettanto speciale, a modo suo, quanto quello di mezza estate. Dura mezz’ora meno che in giugno, ma sembra indugiare lungamente sul mondo rivestito di neve. La lunga notte è lenta a venire, come se i colli scintillanti volessero tener lontana la fredda profondità delle tenebre. Il buio giunge veloce appena il sole è tramontato, ma il cielo a ponente risplende ancora e l’orizzonte è attraversato da una strisca quasi luminosa di un verde intenso. Poi, mentre il sole affonda, un ultimo bagliore sembra riempire il cielo, come se ogni gelido cristallo scintillasse nell’aria. E la terra, le valli innevate e i colli, le alture ammantate di bianco si illuminano. Il crepuscolo è come il bagliore del fuoco visto attraverso una finestra coperta di brina.
Sul finire di gennaio, il tramonto giunge mezz’ora più tardi del mese precedente e c’è perfino un po’ di luce in più all’alba. Il cambiamento si nota dal modo in cui cadono le ombre, soprattutto a mezzogiorno, quando il sole avanza risalendo dalle profondità del cielo. Eppure questo mutamento appare volutamente faticoso, in questo periodo dell’anno. In gennaio, anche quando un soffio di tiepida aria proveniente da sud porta un effimero disgelo, presto è sopraffatto da un’altra raffica polare.
L’anno deve passare attraverso tutto l’inverno perché la primavera arrivi. Non ci sono scorciatoie. Il contadino, in queste giornate fatte di piccoli lavori tipicamente stagionali, ha tempo di meditare sui difetti umani e frattanto si sente grato per la propria sopravvivenza. Egli sa che dopo queste giornate di lavoro al coperto, giungerà il richiamo dei campi in marzo e aprile, il nuovo verde, la nuova vita di un mondo che sta per sbocciare. L’alternarsi delle stagioni, la primavera che verrà: ogni cosa è scritta in quelle ombre meridiane e nel più tardo tramonto. Con questi pensieri il contadino sbriga le sue faccende, sorveglia il focolare… in attesa.
                                                                               Hal Borland