martedì 19 giugno 2012

MIEDO ON LINE - VOTAZIONE scadenza 26 giugno 2012


Poesia n. 1

Solo

Scriver da qui, lontano da tutti
nelle mie parole non c'è tristezza ma rancore
e non esser accettato per ciò che sono
è della natura, la natura del mio errore
Nato già distratto dalla terra mia lontana
che terrore nascondeva nelle aspre sue radici
quella che da tempo chiamavan autocrazia
ora mi condanna lontano dagli amici
congiunto con un altro del mio stesso sesso
mi davan del lebbroso, del diverso, del malato
contagiato da malaria perché con lui ero me stesso
ora rimasto solo perché ero innamorato
Ho spaziato fra terra e cielo
ora tengono me distante dal mondo
fra le sbarre di questo manicomio
condannato in me, già sprofondo
Qui un artista non può non far poesia
né narrare solamente di dolore
che unisce gli uni e gli altri dentro i mille giorni
e le mille storie che vi devo raccontare



Poesia n. 8

Grida di stelle sui larici

Quando appare la sera sui monti
il cielo urla con le stelle brillanti.
Ordina echi di luce alla neve dormiente.
Ondeggianti, i larici, dal fusto grigio,
alti, vigilano sotto il cielo scuro.
Con prudente rumore, li culla il vento. 
Come candelabri spenti, prima
che li accenda una scintilla.
Magnetica, la neve balugina all’esterno
oltre il sipario degli infissi saldi.
Zoppicando, un ragazzo sopraggiunge
nel rifugio, affollato d’ogni sguardo.
Radioso, sorride agli sciatori amici
quando lo accolgono, in sguaiata posa
di un fotografo inventato.
Insensata, cresce l’angoscia nel mio cuore
dilatando la sofferenza innocente,
quando l’ombra dello zoppo si dilegua.
Un dettaglio di morte, consegna
alla mia anima, nell’agguato della notte.
Tronchi alti e ritti, dai rami scheletrici
anelano il cielo e tacciono ogni verità.

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Poesia n. 13

Riparo

Invano, cerchi riparo
dalla pioggia delle tue lacrime
che prosciuga il tuo sguardo,
dalla cera di dolore
che rende immobile il tuo corpo,
dal respiro di lente note
che cercano di risvegliare la tua anima.

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Poesia n. 17

Cattivi presagi

Mi riempio
d’un buio
dimenticato
da Dio

In questo
varco
spalancato
le profezie
galleggiano
su felicità
interrotte

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Poesia n. 19

Davide,  ad anni 2,  in viaggio da solo

C’è chi sta facendo un lungo viaggio
per montagne e per vallate
verdi verdi da farti rabbrividire
all’idea del precipizio
sotto un sole a picco
e nessuna voce che dica
è vicino
quasi ci siamo
porta pazienza.

Nessuna voce esiste per compagnia
in questo lungo viaggio
non esiste ristoro né tregua
prima dell’arrivo
e tutta la strada correndo
Davide
ha avuto paura ed ha pianto:
ci ha chiamati tutti per nome
e non uno di noi ha risposto.

Non uno di noi
ha portato il suo dolore
perché la carne è unica:
e non basta l’amore.

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Poesia n. 24

Al tempo di un sospiro

Paura è un muro invisibile,
che allontana un uomo dalle possibilità di un sè.
Paura è guardare se stessi
ed intravedere
l'interminabile scorrere del tempo
in un corpo che muta,
in un'anima che annega.
Paura è tremore incontrollabile,
ineffabile,
che vive lieve e brusco
al tempo di un sospiro.
Paura è logorio della bellezza di un io;
paura è il ricordo di un dolore
che ha perpetuato se stesso, oltre l'oblio.
Paura è perdita di coscienza,
d'amore,
di conoscenza.
Paura è aria inspirata da un misero essere,
che vive e non può far altro che attendere.


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Poesia n. 29

Paura

“Fisso in eterno questo istante;
lo scrivo
su una roccia
lo frantumo
nel vento.
Per quella lacrima che non ho pianto,
 per quel giorno in  cui non ho parlato,
e sulle rotaie dove ho lasciato
tutti i miei treni di occasioni
senza tempo.
Ma quando ho trovato impigliati i tuoi occhi su di me,
mi è scivolato addosso il sole
e sono rinata dall’acqua…
Adesso anche le mani hanno
paura
di tremare
Ora che le tue spalle proteggono il mio capo,
ho paura di tutto e di niente con te accanto,
ho paura di perderti
ho paura di averti trovato…”


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Poesia n. 38

I denti del Drago

I denti del Drago
non mi trafiggeranno.

Lui
mi aiuterà a sconfiggere

ad abbrustolire i nemici
con le fiamme d’oro

e il potere occulto
si trasformerà in cenere.

Neanche la Fenice
quantunque potente

riuscirà

a ricostruire
le loro tracce

che si perderanno
nello zero assoluto.

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Poesia n. 45

Noi  non  sappiamo     
  
Se una notte senza stelle e senza luna
ti metti a guardare in alto
fissamente
passo passo senza far rumore
ti pare d’esser solo e ti domandi
dove finisce il cielo,
pensi che quello spazio non finisce mai
ti chiedi che ti dice l’infinito
ti sale il sangue alla testa
e ti sorprendi smarrito a navigare
tra scogli delle nubi che si spostano,
d’improvviso ti sboccia una scintilla
un lampo
afferra quel bandolo
della matassa immane
tienilo come fune d’ancoraggio
non restare incagliato
tra il mostro del pensiero
e il gorgo del cuore,
nel mezzo è il vento
che fa camminare la tua barca.
Noi non sappiamo
se la sorte è già pronta quando nasci.

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Poesia n. 46

Vorrei

Vorrei...
Vorrei che questo bagno
in cui mi sono chiusa
restasse sigillato
Vorrei che il tempo
passasse e ripassasse
che il mio corpo
restasse
in questa vecchia vasca ingiallita
senza essere toccato
né visto da alcuno
Vorrei
che il grigio putrido
di queste mattonelle insanguinate
rimanesse tale
Vorrei
che mai più alcuna immagine
potesse riflettersi
fra gli schizzi di sangue
di questo specchio ingiallito
Solo il mio pallido volto

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Poesia n. 55

Mamma

Il rumore dei miei passi
buca il silenzio
di questi viali ora semideserti,
fragranti di siepi odorose
che inebriano e confondono,
che fanno dimenticare per un attimo
la sofferenza chiusa dietro
le finestre dell’ospedale.
I miei passi incidono il silenzio,
tradiscono la mia fuga vigliacca
da quel sentore di morte
che aleggia sopra di te
e che rifiuto di vedere.
Fuggo per non vedere l’attimo
che segnerà la seconda separazione da me:
la prima fu la mia nascita,
questa, definitiva, la tua morte.
Fuggo e mi rifugio
nelle azioni di tutti i giorni
per dimenticare l’estenuante attesa
di un momento che bramo
come liberazione dal dolore
e allo stesso tempo rigetto.
Fuggo e si allontana
il profumo del tiglio
che si insinua dentro la tua stanza.
Ritornerò domani per guardarti
e poi fuggire ancora,
finché mi aspetterai,
finché sarà la fine.


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Poesia n. 63

Fluttuano dolori
che non s’accostano
a parole…
L’ambiguo s’infiltra
e in pancia la nebbia
s’addensa…
Pareti di luce
s’adombrano
soffocano
e giù l’urlo
silente
dove fa tanto male…
flebile
raccoglie briciole
di risa gioconde
e ormai distanti
che il vento corrugato
ha trattenuto i passi
e sol vestigia rimiro
senza alcun appagamento.

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Poesia n. 64

Din don - Il canto della morte allo specchio

Uno specchio, un viso.
Una bocca, fredda, pallida, sigillata, che cela chissà quanti e quali segreti.
Due guance, dure, immobili, che portano i segni del dolore e della sofferenza.
Una clessidra: ormai sono pochi granelli di sabbia.

DIN DON. DIN DON. DIN DON.
Suonano alla porta.
DIN DON.
Venga avanti, prego.

È qualcuno vestito di nero,
porta un cappuccio che copre il volto.
Ha una falce nella mano destra, una lunga falce.

Uno specchio, un viso.
Una fronte, capelli come steli appassiti.
Due occhi, pallide ombre di luce ormai sopita.

Una lacrima.
Cade l’ultimo granello, la clessidra è vuota.
Tutto è silenzio. Tutto è scuro.

Ma ad un tratto è luce:
è luce fortissima; è luce accecante.
Eccola, si avvicina sempre di più,
si, eccola, abbagliante luce,
la cui anima inizia a danzare.
 Manca ormai solo l’ultimo passo.
Uno sguardo indietro prima di andare.
La lacrima, quella lacrima, cade a terra.
Addio.

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Poesia n. 71

Insonnia

A occhi chiusi pesco allucinata
tra coriandoli e lacrime di luna
parole lucide di panico,
corollari assiomi teoremi
da verificare
falsificare
commutare.
Percorsi già tentati, noti
a quest’ago di bussola impazzita.

Poi col puntaspilli
fermo l’attenzione
su stinti grafemi di poeti
morti vivi folli cinici e sapienti
e dal mio Parnaso ride guaisce scalzo
Carnevale
che sarcastico dileggia la mia sfida
ignara d’ogni trappola, raggiro
e infingimenti d’ombre su pareti.

Mi siedo al tavolo col baro
che, a giuochi fatti, confonde le sue carte
(ostenta una vita impomatata
che balla i suoi minuetti imparruccati
senza azzardare mai il salto mortale)
e intanto cicatrici, come ragnatele,
solcano l’anima in brivido di tempo
che cellula su cellula trema e s’impaura
dello squittio nevrotico dell’ora.

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Racconto n. 1

Ti aspetto

Guarda che luna! Guarda che mare! Erano le parole di una vecchia canzone. Ma io sono solo davanti a questa distesa nera, che sembra voglia inghiottirmi e la luna, così tonda e luminosa stasera, mi mette addosso una strana inquietudine.
Ti aspetto da non so quanto  tempo, forse poco, ma qui ho l'impressione di essere da un'eternità. “Vediamoci sulla spiaggia, tesoro. Potremo passare una notte diversa dalle altre” - mi hai detto. Ma non arrivi ed io sono scocciato... Decido di andarmene... Che ci faccio sulla spiaggia, alle due di notte, solo, quando poco distante c'è la vita che mi attende, nei locali, sulle strade. Quando decido di uscire, voglio immergermi nell'umanità. Sono affamato. Basta! Me ne vado.
Vedo un'ombra in lontananza, si avvicina e finalmente distinguo il tuo viso. Sei arrivata silenziosamente, sei a un passo da me. Ti vengo incontro e ti abbraccio. Dolce, tenera e profumata è la tua pelle. Ti sorrido e un'ebbrezza mi prende, che pian piano diventa desiderio. Non ho aspettato invano. Ti stringo a me e affondo i miei denti nel tuo collo morbido, succhiando la vita, la tua.


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Racconto n. 2

In apnea

Fuoriescono risa stridule dalla sua bocca sporca, la sua voce è rosso sangue. La strada è svuotata, sottosopra. Resti di mura variopinte si mescolano a pezzi di ferro unto e pelli flaccide. Vetri di vini pregiati feriscono involucri di cartone consumato dal sole, mentre ossa di animali innocenti lottano contro prigioni di plastica. L’aria si manifesta, intrisa di odori diversi, cattivi: sprofonda, nelle sue narici distratte. È la vita in apnea. Da lontano giunge il suono di mille sussurri, grida, parole arrese. Strani uomini gli passano accanto. Da una finestra avverte il tocco delicato di dita furbe, su tasti bianchi e neri. Intravede piedi nudi, sopra tappeti sgualciti. È un giorno qualunque, le ore hanno deciso di fermarsi. Un bambino si affaccia, dice mamma, papà, guardate, c’è un uomo vestito di bianco con una maschera sul viso. Poi ne vede un altro, e un altro ancora. Si sentono urla; è la disperazione rubata a qualcun altro, s’insinua nei loro corpi, trova riparo. È esplosa una centrale, dicono alla tele. Il bambino chiede se può salire sul tetto a vedere il fumo. I genitori gli dicono sì, va pure. Pare stiano bevendo del vino, forse si fanno di coca. Ecco cos’era stato quel boato, dice il pianista alla moglie. Il bambino torna. Dice che bella giornata che è stata. Vorrebbe andare a mangiare fuori. I genitori dicono ok. Alla tele dicono che a causare il disastro è stata la svista di un solo uomo, di circa trent’anni d’età. Il pianista ha la stessa età. Dice che bastardo. Scendono per strada, raggiungono l’auto, partono. Il pianista getta la sigaretta dal finestrino, poco dopo divampano le fiamme. Colpa di un paio di bottiglie di rum. Colpa anche sua, che se ne stava nascosto tra coperte improvvisate. Ride, sputa. Poi i suoi occhi, morti già da tempo, si chiudono.

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Racconto n. 3

La paura stessa

Neppure io conosco il mio volto: a nessuno è dato di guardare nei miei mortiferi occhi.
Non ho un nome: ne ho migliaia, alcuni già perduti nella polvere del tempo, altri tuttora echeggianti nella mente di coloro che respirano.
Vago nell’eterna notte del mondo, vestita di dolore e di pianto, il mio respiro è l’incubo dei mortali e ho un segreto che solo la morte conosce.
Temono, ma non sanno mai dove mi celo, né quando i miei artigli affilati, neri come la notte, pallidi come la luna invernale, ancora una volta lacereranno la fragile tela delle loro vite.
Quando non temono, sperano: è lì che io mi nascondo e indugio, prima di sferrare il mio colpo soave e fatale.
La speranza è la mia dimora, così come lo è l’amore: nel palpito effimero delle sue ali rosse io giaccio, precedo la gioia e il dolore e non ho rivali.
Scivolo languida nei loro pensieri, m’insinuo non vista nei loro desideri segreti e attendo, attendo sempre, vigile, i miei occhi di tenebra nutrono il buio.
Sono un fiume di ghiaccio che fluisce nelle loro vene intirizzite e sono lava scarlatta che brucia i loro animi.
Parte della vita e della morte, sono il ricordo del male passato, il timore del futuro.
Sono la voce che dal buio chiama e in esso confina.
Sono la forza che stilla lacrime incandescenti dai loro occhi fissi e sgranati, che ruba i battiti dei loro cuori, che illividisce le loro sembianze e fa tremare le loro membra.
Il mio segreto è che ho paura.
Il mio potere è che loro non lo sanno.
Temo e finché io temo, loro paventeranno con me.
Mi odiano, ma sono io il motivo per cui esistono.
La mia paura è di vedere, un giorno, il mio viso riflesso nei vitrei occhi d’un morente.
Quel giorno verrà la mia fine e con me perirà il mondo, perché non c’è vita senza paura, ma non c’è nulla da temere se non la paura stessa.


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Racconto n. 6

L'amore perfetto

Mi avvicinai al letto in punta di piedi. Lui dormiva, con espressione angelica, i riccioli scuri a incorniciargli il viso.
Era così perfetto, quando dormiva. Non avrebbe mai potuto farmi del male.
Evitai il mio riflesso allo specchio, prova di quanto lui perfetto non fosse.
E quella sensazione che ogni tanto provavo si acuì: quel piccolo odio, tagliente come una lama, che mi scavava fino al cuore.
Lui deve morire, bisbigliava quella piccola voce, così piano che io quasi non sentivo.
Ma quella volta, quel piccolo odio, lo udii distintamente.
Uccidilo, bisbigliava. Uccidilo e sarai libera!
Lo guardai dormire pacificamente, e mi parve quasi un angelo.
No. Risposi. Non è colpa sua. Lui mi ama.
Lui non ti ama affatto! Tremai violentemente a quel pensiero, e il dolore incandescente si risvegliò. È così perfetto, quando riposa.
Mi blandì.
Se potesse essere così perfetto per sempre?
I miei pensieri tacquero. La paura che provavo sempre in quel nodo d'amore che mi legava a lui,  s'allentò.
Per un attimo, fu pace, pace nell'eterno respiro del mio amore, pace sulle membra non più contratte dal dolore e dalla paura, ma poi, tutto svanì.
Potresti essere felice, rincalzò quella voce dal mio lato oscuro.
Andrà tutto bene... Mi disse in tono carezzevole. Non dovrai più preoccuparti di nulla.
Quando riaprii gli occhi, egli giaceva sul letto, accanto a me.
Così bello. Così perfetto.
Il respiro non abitava più le sue labbra. Le sue membra prima contratte dalla vita erano ora sciolte dalla dolcissima morte, che, come un incantesimo, lo rendeva ancora più bello.
Baciai le sue labbra morbide e fredde. Baciai il suo petto immobile. Baciai la sua mano morbida e dischiusa e me la feci passare attorno al collo, dietro la schiena. Mi strinsi a lui in un abbraccio.
Era quello, l'amore perfetto.


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Racconto n. 7

Vengo a prenderti

Sara spalancò gli occhi, ingoiando l’aria. Il battito accelerato del suo cuore le pugnalava il petto. Tremava, braccata dal terrore e soffocata dalle coperte del letto.
La tenda della finestra che la nascondeva dal mondo ondeggiava spettrale, facendo a pugni con il cielo pesto.
Sara rabbrividì mentre gocce di sudore le colavano dal volto.
La sua tenda non era bianca! Eppure c'era bianco. Soltanto bianco attorno.
Bianco che impregnava i muri e il pavimento.
Bianco che colava dalle sue mani, bagnandole il petto.
Il letto, la stanza, erano spariti.
La bocca di Sara si spalancò, mentre affogava nel nulla. E quando infine Lo vide, i suoi occhi corsero a rifugiarsi sotto le palpebre.
Sara spalancò gli occhi, respirando terrore. La luce dell’abat-jour le ferì lo sguardo. 
Si rigirò inquieta tra le coperte, per poi mettersi a sedere.
Rosso. C'era soltanto rosso attorno.
Rosso che impregnava i muri e il pavimento.
Rosso che le bagnava gli occhi. 
 La tenda insanguinata le si avventò addosso.
Sara annaspò, sentendo le forze allontanarsi.
"Vengo a prenderti!" – cantilenava intanto Lui spietato mentre l’impronta insanguinata di una mano marchiava la finestra.
Sara spalancò gli occhi, respirando orrore. Non vedeva nient'altro che nero attorno.
Nero che colava dalle sue mani, bagnandole il petto.
Nero che s'insinuava, in ogni angolo della sua anima.
Nero che la riempiva di nostalgia.
Era lo stesso nero dei Suoi capelli, lo stesso nero del Suo sguardo!
"Sei tu." - bisbigliò piangendo.

“Sì. Sono venuto a prenderti." 
L’ombra del suo ragazzo la incoraggiava con frasi che un tempo sapevano di vita e Sara non poté che obbedire. 
Si avvicinò alla mano fredda che lui le porgeva e la strinse.
Non appena le sue dita si unirono alle sue, il suo cuore smise di battere.

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Racconto n. 8

Le idee non hanno paura

Prima d’ora non avevo mai sentito l’odore della paura.
Non so se ne esista più d’uno, ma a me è toccato conoscere questo: un misto di esalazioni acri che sanno di sudore e sangue rappreso, di urina e umiliazione.
L’aria è irrespirabile nella cella in cui ci hanno rinchiusi, sembra lacerare le narici. Attraverso una grata là in alto filtra la luce di un giorno che per me è l’ultimo.
Sono rimasto solo io della ventina che eravamo.
Presto verranno a prendermi.
La notte scorsa, all’improvviso, ci hanno portati via dalle nostre case e caricati a forza su una camionetta per condurci fino a questo forte militare nel mezzo di una landa dove non cresce altro che desolazione.
Un ufficiale ha tuonato che siamo colpevoli di complotto; la sentenza è una sola, ovvia e insostenibile, subito diventata un’ingombrante presenza nello spazio angusto dove, a suon di percosse, ci hanno ammassati come bestie.
Il nostro crimine? Quello d’aver gridato LIBERTÀ E GIUSTIZIA! all’università.
Gioventù scomoda la nostra, generazione d’erbacce da estirpare prima che attecchisca il seme della rivolta. In verità, ci temono al punto da non concederci nemmeno un minuto davanti a un tribunale.
Questione di sicurezza nazionale, dicono.
S’illudono, mettendoci a tacere, di intimorire le nostre idee.
Ma le idee non hanno paura né muoiono a differenza di chi le ha in testa.
Uno dopo l’altro, i miei compagni hanno lasciato un vuoto sempre più colmo d’angoscia fra chi restava in attesa del proprio turno.
E ogni volta né spari né urla da là fuori: il silenzio c’inghiotte. Quale morte si nasconda oltre la porta, nessuno l’ha saputo prima d’esserle andato incontro.
Ecco, passi pesanti s’avvicinano, è l’ora.
Le gambe non mi reggono, qualcuno mi trascina di peso…
Forse sono già morto senza saperlo…

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Racconto n. 9

L’armadio

Luisa fu svegliata alle quattro di notte da uno strano rumore, sollevò di scatto la testa dal cuscino e drizzò le orecchie per identificarne la provenienza, trattenne il respiro fino a che lo udì una seconda volta. Seppur spaventatissima riuscì a individuare che il botto proveniva dall'armadio.
Nonostante fosse una donna di mezza età, ancora si lasciava terrorizzare dalla paura, nella sua vita di sofferenze ne aveva vissute tante che il tempo aveva ammortizzato, ma non senza lasciare cicatrici.
Luisa si vide braccata e senza via d'uscita, indecisa se aprire l'armadio o scappare lontano.
Aveva lasciato il telefono in un altro locale, era comunque rischioso telefonare con il ladro nascosto nel suo mobile, poteva assalirla e magari assassinarla.
Immobile stette in silenzio un altro po'e non udendo più nessun rumore
a piedi nudi, piano piano si avvicinò alla porta, sollevò la maniglia e usci fuori casa.
In strada non c'era un anima viva, nessuno da poter chiedere aiuto, nessuno che potesse aiutarla.
Quando si trovò davanti alla casa di una sua cugina suonò il campanello, alla finestra vide un ombra in vestaglia — Maria, aprimi che poi ti spiego, sono io, Luisa mi hai riconosciuto? — Il cancelletto si aprì e Luisa trasse un respiro di sollievo, finalmente si sentiva al sicuro.
Dopo aver sorseggiato il caffè, Maria l'accompagnò dai carabinieri che dopo aver ascoltato la storia, chiesero a Luisa se in casa teneva un animale, dopo la smentita della donna, si decisero a uscire per fare un sopraluogo.
La casa era in ordine, esattamente come l'aveva lasciata.
Quando aprì l'armadio rimase senza fiato, poi si mise a urlare — No, non è possibile che abbia ceduto il bastone! Ora come faccio ad appendere i vestiti? Agente mi sa consigliare qualche falegname che ripara mobili a buon mercato? —


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Racconto n. 15

Paura di plastica

Lucy è perfetta e tirata a lucido quando il maledetto l’afferra. Non c’è possibilità di lotta, Lucy è abituata a subire passivamente, ormai. La faccenda va avanti da tempo.
Prova a gridare con tutto il fiato che ha in corpo, ma la potente mano del suo padrone l’afferra prepotente alla gola, strozzandone ogni velleità di protesta. Poi è sul letto e lui le è sopra; non pensa a nulla mentre l’aguzzino si cala le braghe e le mutande, in quel torbido pomeriggio d’agosto. Si limita a guardare con occhi sbarrati il soffitto e l’elica che combatte l’arsura della camera. Come quel sistema refrigerante non può scalfire il caldo, così nessuno può fare nulla per lei.
La tenaglia che la sta strozzando allenta la presaman mano che l’ansimare aumenta, dentro – fuori, dentro – fuori, un treno peloso che investe Lucy con la sua foga. Poi è tutto finito e il maiale si accascia per qualche istante a terra, grondante peccato. Infine si alza.
Ora sì che Lucy prova paura. Sa quello che sta per succedere, è sempre così che va a finire. Ha imparato a sopportare l’abuso, è capace di resistere al peso del corpo che la comprime in quella danza unilaterale, ma il terrore del dopo, quello non lo supererà mai.
Non vuole che quelle mani si avvicinino a lei, anche se hanno perso ormai ogni intento predatorio e animalesco. Non desidera essere nemmeno sfiorata, anche se sa che riceverà qualche carezza. Se potesse, urlerebbe al mondo tutta l’agitazione che pervade il suo corpo-oggetto. Ma non può. Ha la gola secca. Gli unici rumori che riesce a produrre, sono gli sbuffi lamentosi che emana quando schiacciata.
La mano le accarezza il capo e lei non si ritrae, immobilizzata; poi scende pacata fino alla schiena, dove trova il bottone magico. Lo apre e Lucy si sgonfia, pian piano, con gli occhi impauriti di chi non vuole diventare di nuovo semplice oggetto.


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Racconto n. 19

La casa

La casa ci guardava da dietro i vetri rotti, ostile e invitante, attirandoci con desiderio come una cosa proibita. Come la donna di un altro. Io, Diego e Andrea ci avvicinavamo ogni mattina, sedotti dallo squarcio nella rete che separava il cortile della casa da quello della scuola, tesi e prigionieri della tentazione. Finalmente un giorno cedemmo e ci insinuammo nel giardino, una palude di gramigna, moscerini, fruscii e ortiche. Sdrucciolammo furtivi fino al davanzale della finestra, il battente derelitto oscillava appeso a un solo cardine. Sbirciammo dentro, i cuori palpitanti.
Un sussurro sinistro.
Un refolo agghiacciante.
Un cigolio lamentoso di legno.
Un rantolo.
Una presenza.
Ci accapponò la pelle, strangolandoci il cuore. Fuggimmo a gambe levate, inseguiti dall’eco e dall’ansia dei nostri stessi passi, lasciandoci dietro una fetta dell’infanzia. Non tornammo più.
Sono trascorsi trent’anni e ancora mi perseguita il mancato appagamento.
L’altro giorno passando accanto alla scuola ho scoperto che la casa non esiste più, ma giace ancora nello scrigno dei miei preziosi ricordi, come un sogno incerto.
Il tempo ci ha separati. Non ci ritroveremo più.
Ma il ricordo della casa ci terrà sempre uniti.

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Racconto n. 26

Prigioniero

Tre. Tre. Tre. Rintocchi sopra la mia testa.
Tre. Tre. Tre. L'orologio alla parete. Il tempo che passa, e non posso raggiungerlo.
Tre, tre, tre. Il ticchettio della lancetta che mi sbatte addosso. La vedo muoversi con la coda dell'occhio. Brillare umida sulle palpebre.
Tre, tre, tre. Lo spesso quadrante nero. Ne vedo il bordo, muovo appena il collo. Mi bruciano gli occhi. Mi mordo le labbra.
Tre; tre; tre. Pulsa come un ago infilzato nel mio cervello. Dritto alla carne. Eviscerata, dilaniata, scoperta. Succo di limone su una ferita.
Tre. Tre. Tre. Mi scuote il petto. Lacrimo. Due gocce sulla barba, due sui polpacci. Pelle tremula. Liquido freddo.
Tre. Acqua che scende. Bagna le ginocchia. Scende, scompare. Non la sento più. Una goccia in più in quest'acqua che sale. E mi bagna inesorabile. Poco sotto le ginocchia. Strofina sull'osso. Minuto per minuto. Secondo per secondo.
La sento avvolgermi le caviglie, stritolarle e accarezzarle. Avvinghiarsi sulla carne. Scivolare sul metallo. Il rumore delle catene non si sente nemmeno più. Non tento neanche di divincolarmi.
Troppo strette, troppo corte.

Tre. Un minuto soltanto.


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Racconto n. 38

Un ragno cammina sul cruscotto nero della vettura. A pochi centimetri da me. Lo guardo. È bianco. Di quelli che sembrano pericolosi. Com’è strano – penso – mi hanno sempre infastidito solo alla vista, ma ora no. Sento il rumore delle vetture che passano sull’asfalto bagnato. Scappano veloci. Io non ho un posto da raggiungere, ancora. Posso scorgere il ragno muovere le zampe rapide sulla plastica nera. Lui è capace di resistere, io no. Potrei schiacciarlo ed ucciderlo. Immagino che non se ne renda neanche conto, che non sia intimorito da questa spiacevole possibilità. Non penso che abbia paura. Per questo sono rimasto ad osservarlo. Ecco il motivo. Nel frattempo scatta di nuovo il rosso, oggi non c’è molto traffico, sono rimasto nuovamente da solo. Da qui posso vedere le gocce di pioggia che cadono. C’è qualcosa di strano. Non ho paura. Non ho più paura. Anche ora che sono solo, non ho paura di rimanerci. Ho sempre temuto la solitudine. Sta facendo buio e ho freddo, ma non ho paura. Ho perso la fiducia poco fa. Mi sono perso. Ma ora non conosco più il terrore, il pianto. Dovrei stare meglio, ché quando si eliminano le proprie paure – si dice – ci si libera di un peso, ci si sente quasi levitare nell’aria. Fa freddo. All’improvviso una luce diversa modifica la forma delle cose che il mio sguardo sta fissando, come se avessero spostato il mondo. È la porta della mia macchina che si apre. Sento delle mani che mi muovono, di fronte al mio sguardo ora il volto di una donna. Non sento quello che dice. Ma nei suoi occhi, ora sì, riconosco la paura. È mia madre. Ha paura. Perché io sono morto, e ora non ne ho più. Vorrei assaporare ancora il gusto amaro della vita. Ma è tardi. Lei invece ne ha piena la bocca, la gola. Ed è così viva. E per questo così bella che pare un sogno.

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Racconto n. 39

Oltre

È solo un ponte. Un passaggio da una riva a un’altra. Per attraversarlo bastano cinque minuti a passo svelto, di corsa, poi, solo tre. Tre minuti, centottanta secondi. Prova a contare come gli ha insegnato l'amico paracadutista: 1.001, 1002, 1003. Per fare un secondo esatto bisogna contare mettendo, prima del numero, mille. L’amico paracadutista non può comprendere il suo terrore per il vuoto. Se gli confessa che le sue gambe si immobilizzano solo all’idea di attraversare un ponte, la presa per il culo è assicurata per il resto dei suoi giorni.
In questo momento però non ha scelta. Guadare il fiume? Impossibile! Morirebbe affogato o sbattuto contro una roccia o assiderato. Oltre quelle tavole di legno sospese c’è la salvezza, tornare indietro equivale a un suicidio. Si rammarica di non aver mai intrapreso un percorso con uno psicoterapeuta per guarire la sua acrofobia. Non ha mai avuto voglia di raccontare i fatti suoi a uno sconosciuto, uno che avrebbe scavato nella sua infanzia, nell’adolescenza, nei meandri della sua intimità. Se si chiama intimità una ragione c’è, pensa.
Ha bisogno di una spinta, ha sempre avuto bisogno di una spinta, anche per passare a scuola, anche per trovare lavoro.
La maglia è fradicia di sudore, i piedi si rifiutano di andare oltre. Si piega in avanti e afferra con la mano viscida il parapetto. Un’ondata di vertigine gli fa salire in gola un conato acido.
Lo scalpitìo di passi svelti nel bosco lo avvisano che non ha più tempo.
Il battito del cuore è a mille, 1.001, 1002, 1003...
Tra un attimo gli saranno addosso.
Il terrore ha incollato le scarpe a terra dove l’orina calda ha formato una gora.
Sono arrivati.
Il Grosso lo afferra per le spalle, lo solleva e, senza tanti complimenti, lo scaraventa giù.
Ha sempre avuto bisogno di una spinta.

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Racconto n. 40

Cancro

Non avere paura dei mostri. Nemmeno di quelli invisibili che si annidano nel profondo della mente, quei mostri che saltano fuori solo quando vuoi tu, anche se dal profondo del cuore non te lo auguri.
Dissero questo al piccolo bambino quella sera, mentre la pioggia inveiva contro le antiche finestre, rintoccando un penetrante conto alla rovescia nei corridoi del vecchio ospedale.
Suo padre era in una di quelle stanze senza intonaco, con il pavimento in finto mosaico marrone e le lampade al neon. Riverso su un fianco con più tubi indosso di quanti il bambino poteva mai contarne, una macchina alle sue spalle emanava un singolo e penetrante bip, lungo un’eternità.
Non avere paura dei mostri, saluta tuo padre.
Il bambino si avvicinò alla soglia della porta, lanciando lentamente uno sguardo all’interno della stanza buia. Il bambino non voleva entrare, sapeva che da qualche parte si annidava il mostro, lo stesso che era dentro suo padre in quel momento. Vagò con lo sguardo lungo il soffitto, fino a sfiorare gli angoli remoti della stanza, dove il nero era accecante.
Entra, entra, lo incitavano alle spalle. Il bambino posò il primo passo nella stanza, il lettino dove giaceva suo padre sembrava impennarsi verso di lui, e poteva già immaginare lo sguardo non di suo padre, ma del mostro all’interno di lui, rivolgergli un’occhiata severa.
Qualcuno lo spinse e qualcun altro lo trascinò, così fu presto al cospetto di suo padre, così vicino da poter sentire l’odore dell’altro. Di un mostro che si annida nei recessi del corpo, consumando tutto ciò che c’è di mortale. L’anima, chiese il bambino, quella è immortale?
Non avere paura, tuo padre riposa in pace.
Non avere paura, anche il mostro se n’è andato.

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Racconto n. 41

Ho paura

Il buio, infranto dalla penombra vinta dalla luce
passato, rapito dal presente oltrepassato dal futuro
infanzia,avanzata dalla gioventù incalzata dall’età della soglia
Disegno un’ellisse,cerchio irregolare ove i puntini l’uno all’altro vicini, sono madre padre figli fratelli, popoli vicini, gente comune, uniti in un girotondo
Non ho paura, sono in compagnia, nel gioco più naturale dell’infanzia del mondo
Disegno un triangolo, dalla base sedimentata, dal vertice lontano
È l’altalena che oscilla
Incalza l’andirivieni:
indietro giù avanti:
ieri oggi domani
passato presente futuro
buio penombra luce
oscillazione che non si può cambiare
triade che non si può mutare
La triade è la distanza dalla base alla cima fatta di scalini, strati della vita, l’uno all’altro vicini  come i puntini della goffa ellisse
Per arrivare in cima salgo gli scalini carnificati di avvenimenti, sentimenti, fatti cruenti
Sono sola nel cammino della vita, senza madre, padre, figli, fratelli, popoli vicini, gente comune
Sono sola a navigar la paura dei vagiti solitari, degli aborti indolori immersi e sommersi, delle stragi dei bimbi, delle morti bianche, della fame nel mondo, dei morti senz’anima, dell’anoressia, delle anime spente, delle colpe impunite, degli amori traditi, degli addii impuniti, degli amanti morenti, dei giovani latenti, dei vecchi abbandonati e dimenticati, delle eclissi solari, del mondo che diventa ovale
Salgo gli strati della vita con la paura d’essere stato, d’essere e dover essere:
ieri oggi domani
passato presente futuro
buio penombra luce
triade che non si può mutare
Ho paura di ciò che non si può cambiare
del ritmo, della noia, della clessidra, della monotonia
La paura
è il sentimento solitario, collante del triangolo oscillante;
è il filo
la distanza che unisce la base alla cima
La paura è la crescita che unisce l’io a dio.



N.B. i due vincitori del Concorso Miedo sono già stati scelti dalla giuria, si potrà votare solo per il premio speciale Miedo on line!



10 commenti:

  1. Alcuni lavori sono troppo deprimenti, altri sono veri e propri deliri. Non è facile la lettura, troppo semplice invece, sfruttare le comuni e quotidiane sofferenze, dov'è finita l'originalità e il motore propulsivo volto alla reazione?
    Vale la pena leggere la poesia n° 8 e il racconto "Le idee non hanno paura".

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  2. Ma queste poesie sono tutte quelle vincitrici o ci sono state delle esclusioni?

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  3. Le opere da votare sono solo le menzionate: le vincitrici sono già state scelte dalla giuria.
    Per votare bisogna utilizzare il sondaggio posto in alto a destra.
    Buona lettura a tutti!

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  4. Attenzione: non è possibile votare dal post.
    Bisogna utilizzare il sondaggio in alto a destra.

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