«Che tempo
fa?»: domanda che risuona sovente fin dal mattino, quando uno si alza e va alla
finestra per osservare il cielo, domanda pronunciata tra sé e sé, la cui
risposta è cercata nelle previsioni meteorologiche alla televisione o nelle
pagine dei quotidiani. Da sempre, l’essere umano sa che il suo modo di abitare
«il tempo che passa» dipende anche dal «tempo che fa», un tempo, quest’ultimo,
che condiziona il lavoro, gli spostamenti, l’umore di ciascuno. Oggi questi
condizionamenti sembrerebbero minori di una volta: il lavoro in campagna
riguarda una percentuale esigua degli abitanti dell’Occidente industrializzato,
i mezzi di trasporto e le strade consentono spostamenti anche in condizioni
atmosferiche un tempo proibitive… eppure l’interesse per «il tempo che fa» non
è affatto diminuito, anzi è aumentato al punto che per alcuni è diventato un’autentica
ossessione. Sì, ci si tiene costantemente aggiornati sul «meteo», se ne parla
molto: la capacità – sconosciuta nei secoli passati – di prevedere il tempo con
un anticipo di almeno una settimana spinge infatti a «sapere», a commentare, a
discutere, anche se poi assai raramente ci si lascia determinare dal tempo
nelle scelte e nei comportamenti.
Ma all’interno
di questa «ossessione» c’è un altro aspetto che riguarda la lettura che ognuno
di noi compie del «tempo che fa»: questa dipende essenzialmente da quanto ci
dicono i mass media, verso i quali c’è un atteggiamento di fiducia quasi
fideistica che toglie la possibile oggettività, il discernimento personale, la
capacità di giudicare da se stessi a partire dall’esperienza e dal ricordo
degli anni precedenti. Così, quando sta piovendo e noi leggiamo, ascoltiamo e
vediamo servizi su piogge torrenziali, alluvioni, inondazioni e diluvi, siamo
presi da paura e sgomento come se la pioggia in sé fosse una novità imprevedibile;
oppure la pioggia tarda a venire e subito ci vien fatto intravedere il deserto
che avanza: allora immaginiamo già le nostre verdi colline riarse, senza più
viti né alberi… Se poi in estate fa caldo, assieme al televisore accendiamo il
condizionatore e ci angosciamo per il surriscaldamento del pianeta e lo scioglimento
dei ghiacciai. Previsioni disastrose, pessimistiche mettono in movimento una
grammatica apocalittica che preannuncia «eventi biblici» (tra l’altro non si
capisce perché gli eventi biblici, che sono eventi umani, devono essere tutti
disastrosi, epocali…). C’è sempre un’apocalisse meteorologica incombente, così
le nostre paure del domani si concentrano ancora una volta sul tempo: non più
la fine del tempo – questo ormai è divenuto un aeternum continuum – ma il «che tempo fa?» è divenuto l’oggetto
delle nostre paure.
E la gente
si ritrova a ripetere le frasi di sempre: «Il tempo è cambiato… Non ci sono più
le stagioni… Mai visto un tempo simile… Non c’è più il tempo di una volta…
Ormai il tempo è matto…» Parole che ritroviamo già ai tempi di Lucrezio, attento
osservatore delle cose della natura, quando si ammoniva a non dire: «quand’ero
piccolo nevicava tantissimo, adesso non nevica più…»; quando si è piccoli,
infatti, anche se la neve è poca, sembra sempre molto alta! In realtà siccità,
pioggia, inondazioni, tempeste sono emergenze periodiche di tutte le epoche e
di tutti i luoghi: emergenze che cancelliamo dalla nostra memoria e che così ci
appaiono ogni volta come novità inedite.
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