Note critiche a “Memorie (Frammenti di vita)”di Michele Di Lieto
A cura di Teresa
Apone
Il titolo mi è piaciuto fin da
subito. Forse perché, come docente di lettere, richiama alla memoria romanzi
della maturità di autori importanti come le “Mèmoires”di Carlo Goldoni che
l’autore cita nella “Premessa”, “Le confessioni di un italiano”di Ippolito
Nievo o come l’avvincente capolavoro, “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar.
Come docente di latino, invece, il testo mi riporta con la mente anche al genere
dei “commentarii“ che erano nel mondo antico dei resoconti di guerra. Ad essi
si ispira Cesare nel “De bello gallico” e nel ”De bello civili”: l’autore classico
crea un genere letterario autonomo, nuovo, in cui alle imprese politiche e
personali si intreccia la sua visione della vita, della politica e della guerra. Alcuni
studiosi parlano per queste due opere di “dimensione apologetica, morale e
politica” (Mortarino, Reali, Turazza). La stessa linea che, in qualche modo mi
pare, anche se in un contesto totalmente diverso, permei il testo di Di Lieto.
Il libro, richiama inoltre tutto il filone della narrativa psicologica italiana
e straniera che fa capo in Italia ai primi del Novecento a Italo Svevo. Leggendo
“Memorie” pare di evocare
reminiscenze sveviane: Zeno Cosini, io-narrato,
Di Lieto, autore, protagonista e quindi, anch’egli io narrato, si mette a nudo
con ironia e capacità di fronte a se stesso e ad un interlocutore immaginario,
come Zeno Cosini, di fronte alla
finzione del dottor S. Ma questo libro così ricco, poliedrico, moderno
nell’impostazione, multiforme nei piani di lettura, è anche un grande romanzo
d’amore. L’autore rivisita la sua vita alla luce di un evento che rivoluziona
lo status quo: l’incontro con la donna della sua vita, sua moglie. In questo senso il testo è anche un grande
atto d’amore, non solo per Rosy, la moglie, ma anche per tutta la famiglia di
lei, incontro e abbraccio nei quali risplende la luce anche della fede e nei quali tutto
acquista un senso, un significato
concreto capace di reinterpretare e illuminare tutta l’esperienza di vita del
protagonista, la rivisitazione del suo passato e della sua famiglia. Per Dante
e gli stilnovisti l’amore si colorava dell’esperienza salvifica, era processo
di maturazione indispensabile, rivoluzionario che trascina l’uomo di fronte a
se stesso, al mondo, nel tentativo di migliorarlo. Lo stesso potere radicale
che ha qui l’esperienza d’amore: rimodellante, rigeneratrice, determinante. C’è
anche un senso di solitudine che traspare, talvolta, tra queste pagine, è quella
del protagonista, che ad un certo punto scopre, in fondo, di non avere amici,
amici veri. È questo il dramma dell’uomo moderno che ha qualcosa di diverso e
in più rispetto agli altri. Forse, proprio per questo, paradossalmente, non
riesce a comunicare con gli altri, vivendo la sua vita, in fondo, in
solitudine. La complessità dell’autore, però, si sublima e trova voce in un
linguaggio semplice, agevole, ironico, interlocutorio, linguaggio che funge da
alter ego e in cui si ricompone l’armonia e la frattura dell’uomo (Petrarca,
ante litteram, in questo senso, docet). Moderno è anche l’impianto strutturale
dell’opera, moderno il frammento che trova luogo nell’archeologia globale
enella visione esistenziale dell’autore che però, a differenza degli eroi-protagonisti
moderni e decadenti, pare trovare soluzione alla sua vita, attraverso la
scrittura e l’amore.
Non c’è solo modernità in questo
romanzo: esso è profondamente intriso anche di classicità. I due piani si
fondono in una visione ancora armonica e suggestiva. Nel quinto capitolo riecheggiano
immagini e sapori virgiliani: il mondo contadino e la natura concepiti come
mondo di valori perduti, sani, eterni. Mito, bellezza, amenità, ma anche lavoro,
fatica sono i temi dominanti della
poesia bucolica virgiliana.
Nel capitolo cinque Il mito, l’ulivo,
simbolo della nostra terra, è meraviglia
e allo stesso tempo fatica (l’olio): il mondo agreste di Virgilio si confonde
con il lavoro dei nostri contadini, della nostra realtà. A questo mondo di
valori perduto e ormai scomparso l’autore sembra guardare con nostalgia così
come il poeta latino. Ma classicità è anche l’immenso amore per il latino e il
greco che direi quasi trabocca in questo testo, per il diritto (anche se qui la
questione si fa più controversa). La classicità rappresenta una costante che
contraddistingue e caratterizza tutta l’autobiografia.
Classicità e modernità, non solo.
Questo è anche un libro di grandi passioni. E la più alta, la più intrigante è
la politica. Il capitolo quattordici (Dino) è forse uno dei più riusciti del
romanzo. Qui l’autore tocca il cuore con scene quasi cinematografiche che
rievocano il lirismo di Vittorini in “Conversazione in Sicilia”. Il treno dei
bambini- migranti richiama alla mente la catena umana di Siracusa di
quest’estate. Il personaggio “Dino” sembra essere vivo, reale degno
protagonista di un film di Rossellini.
E c’è un filo sottile che filtra
tutti gli avvenimenti: l’ironia dell’autore degna dei grandi della letteratura.
Ironia, altra costante anche dello stile, del linguaggio. Talvolta essa diventa
comicità, autoironia, divertimento che si trasmette al lettore come nel
capitolo dodici dedicato alla televisione o quello dedicato a Nora.
E poi c‘è la Storia, quella vera,
universale che s’intreccia alla vicenda biografica e su cui la biografia pare
innestarsi. Solo che a differenza del romanzo storico classico, qui l’aggancio
tra vicenda personale e storia è più sinuoso e moderno, nel senso che la storia
RICORRE, ma non fa da sfondo come nel romanzo storico classico. Anche questo
nuovo modo di rapportarsi alla storia è originale, personale. E poi c’è l’arte,
il surrealismo, Kerouac: il trait d’union è sempre Rosy più terapeutica dei
sedativi usati troppo presto (capitolo diciassette). Rosy angelo salvifico:”Rosy
sarà per me l’Angel del Signore”, in lei si dilegua anche la paura più atroce e
definitiva: la morte. Uno stralcio intenso, direi commovente, è quello sulle
paure a pagina centotrentaquattro. ”Tornano, insomma, le mie paure… Paura degli
altri… paura della fine… Mi sorprendo… a cercare l’indirizzo di una casa
ostello….” Sette - otto righi straordinari: c’è tutto, ci siamo tutti noi!
Ma c’è tant’altro. Tradizione e
innovazione. Tenera e straordinaria è la descrizione della famiglia, delle
feste dei patroni e dell’episodio di Betsy nel capitolo venticinque. Allegre,
goliardiche le pagine relative allo sport, alla radio. La varietà è un altro
punto di forza del romanzo tra il piano della ”leggerezza”per citare Calvino e
quello più apertamente didascalico, morale, riflessivo.
Infine, c‘è il Cilento, la “seconda e la terza
vita” a fare da alter ego al passato, all’infanzia, ai baci mai visti e mai
dati, alla costiera amalfitana. Questi due ambienti, questi due squarci, queste
due costiere che si rincorrono dirimpetto racchiudono lo tutto spazio, lo
scenario degli affetti… della vita.
Infine, mi piace ricorrere a
Gadamer: alla rete di testi che si crea attorno ad un testo (quando è valido
naturalmente). Alla rete di lettori e interpretazioni che crea il miracolo
della lettura. Di Lieto ci è riuscito catturando anche me e creando, come i
grandi autori, attorno al suo libro, una comunità, una famiglia in cui questo
libro riecheggia e vive come nella combinazione dei vasi comunicanti in cui
lettore e autore si mescolano, si
rincorrono, si fondono, si riconoscono.
Nessun commento:
Posta un commento