La
metafora della vita
Autrice: Giuseppina
Zupi
Si sorprendeva a fantasticare su situazioni
fantascientifiche e paradossali, mutuate dalla fisica quantistica: dimensioni
parallele, vite alternative e possibili. Un evento poteva svilupparsi secondo
infinite modalità, in universi differenti, separati e distinti dal nostro ma
coesistenti con esso. Tuttavia le infinite possibilità si contraevano in una
soltanto o almeno così era dato percepire agli umani, anche se la verità poteva
essere altra. Se aprivi la
porta A , oltrepassando la soglia, impattavi in un determinato
destino. Se aprivi la porta B ,
varcando l’ingresso, ne percorrevi un altro totalmente difforme.
Con l’impeto, l’istinto e le aspettative della
giovinezza, aveva spalancato una porta, non sapeva se era la A o la B, non
sapeva cosa l’attendeva, avrebbe potuto aprire l’altra ma aveva scelto proprio quella,
dando corso all’imponderabile sorte.
Incontrava un bel giovane, con occhi neri e profondi
come abissi che la catturavano subito, studioso, serio. La famiglia sembrava
serena, accogliente, anche benestante. Il ragazzo diventava suo marito. Si iscriveva
all’Università, una facoltà dove conseguiva ottimi risultati con relativa
facilità, tanto da laurearsi prima dei tempi previsti. Vinti alcuni concorsi, aveva
scelto un Ente di alto livello e di buona retribuzione. Il suo dirigente era
una persona apprezzabile che la stimava e la coinvolgeva, anche i colleghi
erano molto disponibili, lavorava in squadra con un rapporto di collaborazione
e allegria. La famiglia di origine, nell’ambito del suo matrimonio, si mostrava
molto discreta: non interferiva, non
ingombrava. Aveva avuto bravi figlioli.
A questo punto le sembrava di aver scelto la porta
giusta, la migliore. Ma
sembrare non equivaleva a essere, la verità poteva essere altra. Così come
nella Repubblica di Platone, nel mito della caverna, i prigionieri vedevano le
ombre proiettate sul muro e le percepivano come reali.
Il bel giovane sfruttava e approfittava della sua
bellezza, gli occhi neri e profondi erano colmi di menzogna, indecifrabili come
abissi. Lo studio e l’impegno sforavano in ambizione sfrenata. La famiglia
accogliente l’aveva fagocitata e umiliata. Benestante era solo la facciata di
creature mediocri.
Aveva terminato l’Università prima del previsto,
uscendone stremata ed incapace di maggiori aspirazioni, se non quella di un
impiego. Il suo capo, dopo alcuni anni, ammalatosi gravemente veniva meno,
lasciando lo staff nello sconforto e allo sbando. Non solo, a breve, l’Ente
parastatale chiudeva, il personale si trovava disgregato, lei inserita in un
ministero frustrante e anonimo. Nel tempo aveva compreso che, la sua famiglia
di origine, era stata ben felice che si fosse sposata e tolta di torno perché
invischiata in problematiche antiche. Non aveva tempo e spazio per gli unici
nipoti, occupata ad occultare le piaghe che l’avviluppavano. Era felice di aver
avuto i figli. Da piccoli era una gioia curarli, accudirli amarli. Da grandi
più difficile. Le rimaneva il disappunto che, come molti ragazzi, mancavano di
progettualità, di relazioni di spessore, di aspettative per il futuro.
Ormai versava nella situazione in cui non esistevano
più porte da aprire ma solo da chiudere. Immaginava di percorrere un lungo
corridoio, una miriade di stanze separate da porte. Entrando in ogni ambiente,
serrava l’uscio dietro di sé. Il primo era grandioso, ampio, affrescato, come
quelli dei palazzi gentilizi. Man mano che procedeva le dimensioni degli
ambienti e delle porte si riducevano progressivamente, fino a far fatica ad
entrare. Quel percorso a tappe era gravoso, le procurava una debilitazione
sempre maggiore e inspiegabile. Al fine chiudeva una porticina minuscola come
un abbaino. Accedeva ad un luogo stretto, sviluppato in lunghezza ma talmente angusto
che era a malapena in grado di contenere il suo corpo. Non era triste né
angosciata, solo stanca, affaticata, stremata.
Si stendeva al suolo, cedendo all’oblio del sonno.
Un raggio di sole caldo penetrava dai vetri polverosi
e opachi, avvolgendola nel bagliore smagliante della verità.
Dov’è la
verità? Cosa possiamo comprendere, mentre procediamo lungo il percorso dell’esistenza?
Giuseppina Zupi ci dà la sua risposta
in un racconto che è densa, forte metafora: i livelli di conoscenza, di
comprensione, sono sempre molteplici e variabili, e, infatti, la protagonista de
«La metafora della vita» attraversa la propria esistenza con un crescente grado
di consapevolezza, che toglie man mano i veli che appannavano la vista. È un “togliere”
doloroso ma necessario.
Giuseppina Zupi è molto attenta nel descrivere la crescente
amarezza, la debilitante fatica, e particolarmente indovinata è l’immagine
delle stanze attraversate che si fanno sempre più piccole: metafora di un’apparenza
che incanta sempre meno, prima che giunga l’intensa luce della verità.
«La metafora della vita» sottolinea che ogni
passo compiuto è necessario, perché solo quando ogni passo è compiuto, è
possibile passare al successivo.
Per contattare l’autrice: giuseppina.zupi@mit.gov.it
Della stessa autrice: Gli
affreschi di Michelangelo
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