Che
cos’è una bignonia se non una cicala vegetale? Se la si osserva bene nel
silenzio, si ode un suono quasi impercettibile, un canto all’estate. Sul muro
di cinta che divide il mio giardinetto dall’orto del monastero di San Bernardino,
a Viterbo, questa pianta di origine tropicale, che fiorisce per tutta l’estate
con i suoi numerosi fiori rosso-arancio, simili a minuscole trombette, si
arrampica nell’angolo su cui batte il primo sole. D’inverno è spoglia e
scheletrica, quasi a lamentare la vedovanza del sole. A luglio, invece, è una
cascata di fiori fiammeggianti che nella calura sembrano cantare insieme con le
cicale nella sottostante Vallecupa un inno di gioia a Elio. E, come le cicale
durano il tempo di un’estate, così i suoi fiori, che si rinnovano
freneticamente sotto il solleone, appassiscono rapidamente e cadono.
Secondo
una leggenda ispirata a un mito platonico, prima della nascita delle Muse le
cicale erano degli uomini. Quando le figlie di Zeus e Mnemosine comparvero sull’Olimpo
alcuni uomini furono così ammaliati dal loro canto che si scordarono di bere e
mangiare e morirono sfiniti. Da quegli uomini nacque la famiglia delle cicale
alle quali le Muse hanno concesso il privilegio di cantare senza toccar cibo e
di salire fino a loro per riferire notizie su chi le onori sulla terra. Sempre
secondo lo stesso mito, alla morte le cicale si trasformerebbero per incanto
nella pianta che più somiglia loro, la solare bignonia che continua a cantare con
la sua musica vegetale, percepibile soltanto dagli uomini capaci col cuore di
cogliere il suo canto in onore del maestro delle Muse, Apollo-Elio, il cui
plettro è il luminoso raggio del sole. Sicché la bignonia è diventata una delle
piante sacre al sole e non a caso fiorisce dal solstizio d’estate all’equinozio
d’autunno; e come la cicala è l’ideogramma della vita felice nella luce e nella
bellezza, ma propizia anche l’ispirazione di scrittori e artisti.
Come
potrebbe essere altrimenti se nella vita precedente ha potuto, sotto le
sembianze di una cicala, salire fin nel regno delle Muse?
(Alfredo Cattabiani, tratto da “Lunario”)
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