Ginevra
Autrice: Monica Fiorentino
(tratto da _lagazzadalcuoredimetallo)
Lettera 21. “Fra rami d’ulivo scivolano tremule lucciole, mentre la tua bocca dolce di viole e miele, grembo d’angelo accogliente, si stacca adagio dalla mia, restituendomi al mio corpo…” di nuovo lo stesso sogno, da tacere, da non raccontare, da chiudere dentro, soffocare in gola, sotto quintali di ferro e chili di ruvida stoffa, uniforme inappuntabile d’ordinanza. Lo stesso sogno da tenere segreto su carta, ben nascosto. Sensazioni che non dovrebbero mai sfiorare la mente, così libere. Emozioni di carne e sangue. Sconvenienti da provare per alcuni, in tempi di guerra.
Sollevò Ginevra
la testa dal suo vecchio quaderno, puntando fuori, verso il cielo, perdendosi
nel lento cadenzare del crepuscolo a sfumare il giorno, dietro i vetri del
grosso edificio sventrato alle radici, dalle bombe lanciate a ripetizione, nudo
scheletro privo di calcinacci alle sue fondamenta. Mastodontico mostro in
equilibrio precario.
I lunghi
capelli rossi tenuti stretti dalle forcine, austeri, a modo, le indurivano i
tratti acerbi, rendendoli decisi, severi, la divisa a cancellarne l’identità:
soldato dal braccio infallibile e la mente programmata all’attacco.
“Il corvo e la
rosa, la mia carne: di comando la veste d’uomo, a ricoprire la stola femminile
di sottile candore. Volutamente. Così è stato scelto, così per me. Uccello
d’acciaio dalle lunghe ali perfette, il volo ineccepibile, marchingegno bellico
infallibile, concepito secondo le logiche della fine arte della guerra,
incontrastata signora a disseminare orrore e morte. Arma letale. Il corvo e la
rosa. Becco fatale su piume nere di giorno, vestigia di devastazione, roccia,
pietra impenetrabile, a divenire di notte tremula carne a fremere, sognando
caldo un abbraccio d’amore, emozioni umane su trame di carta da tenere segrete
al mondo, sconosciute: pensieri di donna. Nugolo tenero al centro dell’essere
da tacere al creato, perché un ottimo soldato non dovrebbe …”
Fermò con un
punto la giovane, il suo scrivere, seduta al tavolo accanto ad un grosso bicchiere
di plastica vuoto del suo contenuto. Solo in quei momenti di relativa quiete,
parentesi di “cessate il fuoco” improvvisi ed improvvisati, sempre troppo
brevi, dava sfogo alla sua penna, fra cimiteri di corpi, ammassati ai margini
delle strade ad imputridire, vene disseccate, cervella aperte, bocche sdentate,
spalancate, senza fiato. Abbassò gli occhi lei, al salterellare sornione del timido
Romeo sui suoi fogli, morbido nel proprio avanzare, superstite di quello
scempio, gatto dal pelo bianco, generoso di fusa e coccole, inquilino
incurante, della solida agibilità dei suoi immobili, una volta “casa”, divenuti
“rifugi” alla voce “guerra”.
“Il petalo di
una rosa, lambisce le mie labbra, col suo carnoso corpo cremisi. Come può esser
peccato, bramare la gioia intima di un contatto, scegliendo di sacrificarsi
invece per contrasto al proprio altare, rinnegando se stessi, uccello da guerra
dagli ingranaggi d’eccezione, corazza a far da seconda pelle, per tenervi ben custoditi
all’interno utero e seno. Gazza meccanica dal cuore di bulloni e viti. Creatura
sincronizzata a scendere nella polvere e affrontare senza indugi la battaglia,
rinnegando i propri desideri, i propri sogni, le proprie naturali inclinazioni,
esigenze, zittendo i fianchi a divenire morbide curve per dispetto”.
La mente di
lei tornò per un attimo a quel viso, quel sorriso, quella voce a carezzarle il
cuore prima ancora che le orecchie, non aveva mai provato una sensazione simile:
udire una voce col cuore prima che con i timpani, una voce ad entrarle dentro
attraverso il sangue. Lui, piegato su quel pianoforte, viso bambino, attento
nell’incedere dei tasti, le sue dita, bianco e nero, il pedale a ritmo. Quello
sguardo, non gli avrebbe dato più che una ventina d’anni, le gambe snelle, la
corporatura esile, i capelli neri, le lunghe braccia, un pettirosso dalle ali
di neve, le piume calde, il becco d’avorio, nell’incrociarsi dei loro occhi un
fiume in piena ad esondare. “È in servizio?” le aveva chiesto bicchiere fra le
mani, a prendersi una pausa dalla sua musica e rinfrescare la gola, il capo di
lei ad abbassarsi. Gli anfibi, la mimetica, i gradi appuntati in evidenza,
lasciavano ben poco alla fantasia, era in servizio, certo che lo era. “Potrei
sapere il suo nome?...il mio è Loris e lavoro qui solo da poco!” gli aveva
porto lui la mano. Scansandola lei era passata oltre, dirigendosi a terminare il
suo giro di perlustrazione. A quel gesto, di rimando lo sconosciuto le aveva
preso il braccio e facendola ruotare su se stessa, le aveva fatto comparire
sotto il naso una rosa dal lungo stelo e i petali rossi, carnosi, bagnati di
rugiada “Ne compro sempre qualcuna la sera, prima di cominciare a suonare, le
lascio sul pianoforte a farmi compagnia, la gente crede siano un regalo di
qualche donna, sono maliziosi gli altri! È per lei, buon lavoro! E si ricordi… che
un saluto è gratuito, potrebbe usarlo più liberamente!” nell’accomiatarsi lupo
indomito dal pelo di luna, deciso, duro, invincibile, giovane uomo dalla bocca
indecente, impunito a sfiorarle con un dito la guancia, senza avvedersi del
rischio d’essere riempito di piombo nel bel mezzo della sala.
Se devi
amarmi, per null'altro sia
se non che per amore.
Mai non dire:
"L'amo per il sorriso,
per lo sguardo,
la gentilezza del parlare,
il modo di pensare
così conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno".
Queste son tutte cose
che posson mutare,
Amato, in sé o per te, un amore
così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto.
Può scordare il pianto
chi ebbe a lungo
il tuo conforto, e perderti.
Soltanto per amore amami
e per sempre, per l'eternità
se non che per amore.
Mai non dire:
"L'amo per il sorriso,
per lo sguardo,
la gentilezza del parlare,
il modo di pensare
così conforme al mio,
che mi rese sereno un giorno".
Queste son tutte cose
che posson mutare,
Amato, in sé o per te, un amore
così sorto potrebbe poi morire.
E non amarmi per pietà di lacrime
che bagnino il mio volto.
Può scordare il pianto
chi ebbe a lungo
il tuo conforto, e perderti.
Soltanto per amore amami
e per sempre, per l'eternità
“Questa poesia
non è mia!” recitò la voce del giovane al microfono, senza spostare gli occhi da
quelli di Ginevra, gli stessi in cui era stato per tutto il tempo di quei versi
a salirgli alle labbra “Non è mia, ma la conservo da sempre gelosamente fra i miei spartiti. Stasera beh,
è come fosse stata mia!” concluse lo spettacolo fra gli applausi a scena
aperta.
Squadrandolo
muta, la giovane si chiese cosa avrebbe fatto se avesse mai saputo che anziché
un cuore pulsante e caldo, aveva al suo posto un meccanismo di metallo. Se gli
avesse rivelato in quel locale, in piedi, fra la gente, che non era umana come
lui, che “umana” un tempo lo era stata, poi raccolta moribonda, in fin di vita
in una fossa comune, era stata “cambiata” per servire la guerra, dalla mano di
uno scienziato addestrato al successo, che non aveva sbagliato un solo
passaggio del rischioso intervento di ri-pristino del suo respiro da umano a
“congegno”. Chissà nel venirne a conoscenza cosa avrebbe pensato. Se come
quella poesia, anche lui, avesse mai saputo fare all’amore con una macchina. E
senza darsi una risposta né richiederla, lasciò il luogo attraversando la porta
di vetro scorrevole senza mai voltarsi indietro.
Lenta a quel
ricordo, la donna strofinò il morbido pelo del gatto, segnando il suo ultimo
haiku in blu Una farfalla/ sul bianco marmo/ È colore, la sua poesia a
chiudere lo sfogo di quel momento, pronta a congedarsi dal suo quaderno, per
organizzare la ronda notturna “Gerico 1.0 in ricognizione. Entro nella zona
controllo! Rispondete!”
“Mentre lo sguardo del felino, a soffiare di
continuo, passava da lei, all’angelo che di lontano serrava i suoi occhi, due
braci viola di dolore accesi, scuotendo le proprie ali per riprendere il
cammino”
Lo sguardo di Ginevra spostato dal quaderno al
paesaggio che la circonda potrebbe essere l’immagine-simbolo di questo nuovo,
sempre intenso racconto di Monica Fiorentino. Lo sguardo spostato dal
chiarore dell’arte al freddo buio della guerra: in questo passaggio, nella
consapevolezza di esso, c’è il senso profondo di chi si accorge dell’entità
della differenza e sceglie di conseguenza.
I racconti di Monica Fiorentino, oltre ad
essere pregevoli opere letterarie, hanno il merito di far aprire gli occhi su
quanto sia sostanziale la differenza tra la pace e la guerra. L’immagine dell’umano
trasformato in macchina, poi, è particolarmente adeguata per meglio comprendere
la necessità della consapevolezza, se si vuole davvero dire “no” alla guerra.
In quel “senza darsi una risposta né
richiederla” c’è tutto il senso desolato della non comprensione, cercata e
trovata quando il mare dell’odio ci sovrasta.
Della stessa autrice: Cristina
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