Matteo
Autrice: Monica Fiorentino
(tratto da _l’albatrosdalgrandesogno)
Lettera 21. Muti gli occhi di lui si posarono su quella polvere, ferma, immobile, finissima, sollevata a tratti dal vento, quasi a divenire fumo sottile di nebbiolina gialla, cratere a cielo aperto nel grembo sventrato di quello stadio senza più un solo filo d’erba, tagliata a modo, senza più una sola striscia bianca al suolo a delineare perimetri di gioco, privo di quell’odore, particolare, che nel tempo aveva imparato a riconoscere come suo; non era più quello il posto dove era stato vitale correre per giocarsi la vittoria, la vita, dove lo spostarsi delle gambe diveniva danza in sincrono fra compagni e avversari, urla, fischi, brezza nei capelli, sudore, polmoni pieni, braccia levate in alto lanciate verso la gloria, una festa dal crescendo esponenziale. Muto, percepì il silenzio, irreale, appiccicarsi alla sua pelle e una smorfia di dolore gli si dipinse sul viso. Spoglio, nudo dinanzi a quella devastazione, sagoma ingombrante, ombra fantasma in quel campo di calcio vuoto della sua linfa, il suo sguardo vagò in cerca della vita, inutilmente. Non c’era più nulla del gioco, di quel sano spirito vivo, sulle cui basi si era eretta quella mole di pietre e cemento, spalti, quell’infinito verde da calpestare, un tempo cuore pulsante di orgoglio e gioia, fogli di giornale delle domeniche, anima estirpata alle radici. Tutt’attorno le bombe avevano demolito ogni cosa, distrutto palazzi, divorato case, tranciato il respiro di neonati, per le strade, nei vicoli neppure più un pallone, le ossa erano state frantumate, i fucili avidi dei gendarmi dal lungo pennacchio si erano abbeverati di carne giovane, muscoli a battere, donne coi loro figli fra le braccia, il rumore dei tacchetti era stato sostituito dagli anfibi dei soldati, le urla d’allegria dagli ordini pronunciati ai margini con ferocia tagliente.
Come un’ombra lenta e cadenzata, l’ombra
che era divenuto, lui ripassò quel campo, camminando scalzo fa quella polvere
attaccata ai suoi talloni, al suo petto “I rigori li sbaglia solo chi ha il
coraggio di tirarli” aveva affermato un tale. E chiudendo gli occhi ricordò
quella sfera a vibrare sul terreno, fremente, calda, roboante, quella palla che
lui aveva reso la sua amante e sposa, rincorrendola nel fango, col fiato corto,
i muscoli tesi, il cervello a mille: il suo calcio, quello per cui aveva bevuto
assieme agli altri pioggia e si era fatto bruciare le labbra dal sole pur di
tenerlo fra le gambe a correre, lui che le sue gambe se le sarebbe spezzate per
portarlo in alto, oltre la rete, oltre il limite stesso concesso dai sogni per
superarlo e vincerlo, portandolo oltre ogni vetta, albatros dalle immense piume
bianche. Quei guanti che di fronte aveva sfidato, ogni volta, cento e cento giri,
mai sazi, ebbri, la polvere che aveva mangiato, quel rimbalzare piede-caviglia-stinchi-cosce,
gola, “uomo”, sguardo al cielo che fosse stato d’azzurro o piombo, oltre le nuvole.
Petto, passione, provocazione e vita, vita ancora vita, solo vita.
“Allora verrò a vederti giocare!”
ricordò lui d’un tratto, le parole di quella perfetta sconosciuta, i cui occhi
aveva incrociato di colpo quella mattina d’aprile al mercato, per non
dimenticarli mai più. Lei che di primo acchito l’aveva fatto sorridere, in
piedi fra la folla del mercato pullulante di persone indaffarate, intenta a
gesticolare con quelle sue minute braccia, a testa alta, tipa dal muso duro, il
cipiglio di un lupo e le ali di una cinciallegra, tra la ressa che di fretta fra
spintoni e grida, cercava di appropriarsi degli ultimi scampoli di approvvigionamenti
rimasti, prima del riprendere delle azioni belliche; lei fra il frastuono ed il
caldo, concentrata a recitare poesie a dei bambini accorsi attorno ai suoi
versi, insegnando loro a dividerle in sillabe, la sua voce l’aveva attratto
subito, e come spinto da una forza irrefrenabile le si era avvicinato, continuando
coi suoi rimpalli, ginocchia-piede, stop di petto, attirando l’attenzione dei
piccolini, col risultato di farla arrabbiare non poco “Non sono poesie in lingua,
si chiamano haiku… è poesia certamente, ma molti non la conoscono!” aveva puntellato
lei le braccia sui fianchi cercando di dirottare il giovane da tutt’altra
parte, per riprendere il controllo della sua cerchia di ragazzi “Sei una
poetessa allora! Una sorta di Bukowsky in gonnella!” l’aveva definita
sorridendo, facendola arrabbiare oltremodo. “Certo! In fondo, immagino tu conosca
una miriade di altri autori, al di fuori ‘del solo’ zio Buck!” quel carattere pronto,
affilato, gli era entrato dentro, immediatamente. “Beh, no… anche le poesie “sudoku”,
sì dai, un po’ le conosco!” e nel pronunciare quelle parole aveva provato l’incontenibile
desiderio di baciarla davanti a tutti, di prenderle la nuca e respirare l’odore
delle sue labbra da vicino. Ma sarebbe stato sgraziato, avrebbe rischiato oltretutto,
da quel poco che aveva potuto appurare, anche d’essere sbranato da cotanta
ferocia, certo bisognava prima almeno un po’ conoscersi. Ma la guerra non concedeva
quasi mai a nessuno questo genere di lussi.
Ricordò il sorriso di quella giovane a
sedersi sulle scale, quando ubbidiente lui aveva arrestato di colpo il pallone,
prendendolo sottobraccio invitando i bambini a seguirli in circolo; aveva
raccontato loro del colore della sua maglia, del sudore, dei trucchi imparati, senza
sconti, incollata la palla al piede, bambino biondissimo, adulto dalle spalle
larghe e quei fianchi troppo stretti, ginocchia a scattare, il passo
dell’arbitro, sangue, il cuore, al grido di “boia chi molla”, sempre sul pezzo.
Seduti su quei gradini tra foglie di verdura e resti di frutta rancida, svenduta,
a ruota lei gli aveva parlato delle sue poesie,
dei suoi sogni di scrittrice di haiku, una poesia in stile orientale che conta
le sillabe e che in occidente prevede una sequenza più lunga; di quanto fosse
in realtà innamorata del Bukowski poeta e scrittore, dai versi liberi e veri. Tutto
ciò di cui la guerra non teneva alcun conto.
Muto, in quel campo ridotto al nulla,
orfano dei suoi ricordi, Matteo lasciò cadere al suolo la sfera, aprendo la
mano, e due occhi viola di dolore acceso si chiusero di sofferenza su quello
scenario, dove neppure più gli angeli riuscivano
a ricacciare indietro le lacrime. Quel giorno al mercato, non le aveva chiesto
neppure il nome, fra loro solo quella promessa “Allora verrò a vederti giocare!” “Promesso?”
“Promesso!”, ma la guerra non incide i nomi. Il rotolare della palla lungo il terreno
di gioco, divenuto macabro sudario d’orrore e sangue, sembrava scrivere uno
haiku col suo incedere Zucchero/Le mie
labbra a vestirsi/della tua bocca e sul
suo viso si abbozzò un sorriso, mentre lenta una lacrima, divenne ai suoi piedi
una morbida rosa dal cuore bianco.
“Spoglio, nudo dinanzi a quella
devastazione, sagoma ingombrante, ombra fantasma…”. Potrebbero essere queste,
le parole-chiave del nuovo racconto di Monica
Fiorentino, queste o (anche) molte altre, perché questa giovane autrice ci
ha abituati a una particolare abilità, a una capacità che sa far vedere l’essenza
dell’amore quotidiano nel mare indistinguibile dell’odio. Sì, perché l’odio
della guerra tutto livella, tutto pone allo stesso livello, spianando con
crudeltà le sottili differenze, i tuffi del cuore, le sfumature.
La penna, il cuore di Monica Fiorentino hanno una sensibilità
tale da poter far notare tutto questo e ancora altro.
Quel “Tutt’attorno le bombe avevano demolito
ogni cosa” riassume al meglio la necessità di saper riconoscere l’avanzata dell’odio
per potersene liberare, per allontanarlo prima che sia troppo tardi. Prima che
si venga, appunto, accerchiati.
Continua il canto contro la guerra, continua
la grande capacità di un’artista che sa farci vedere oltre l’ottusità.
Della stessa autrice: Nausicaa
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