Ecco un estratto del testo di Rosario Tedesco (rosariotedesco@hotmail.it) letto durante l'appuntamento di "Libriamoci" di gennaio (qui trovate le foto). Grazie a Rosario e a tutti gli intervenuti che hanno dato vita a un altro incontro ricco di interventi e stimoli di riflessione.
"Libriamoci" di febbraio, a cura di Anna Giordano e Giuseppe Salzano, si terrà domenica 17 (sempre alle ore 17,00 e sempre presso il Centro d'Arte "Keramos" ad Agropoli) e sarà dedicato all'affascinante tema della spiritualità: come riferimento letterario è stato scelto "Siddharta" di Hermann Hesse e sarà ospite il biblista padre Ernesto della Corte.
I.
La gente è
per lo più infelice, lo vedo, lo rilevo, lo constato tutti i giorni.
Nonostante talvolta crede di non esserlo.
Perché pur nei momenti nei
quali non ha dei motivi – sempre apparenti – per non essere infelice,
una persona è tuttavia costretta ad essere gentile con il prossimo, vuoi
perché è costretta a farlo per lavoro o semplicemente per ragioni di buona
educazione, vuoi perché lo fa spinta dal (tutt’altro che) semplice desiderio
d’essere di compagnia, di conforto o di sostegno a qualcuno – senza chiedersi
se costui abbia effettivamente bisogno di tutto ciò – nella certezza che
di esser poi ricambiata in egual modo – senza chiedersi se ella abbia effettivamente
bisogno di tutto ciò.
Un discorso perfettamente analogo va fatto
anche nel caso in cui, viceversa, si asseconda l’istinto-volere-piacere(sadico)
non solo di non essere gentile nei confronti del prossimo, ma di essergli
palesemente, esplicitamente e dichiaratamente ostili, come è il caso in cui si
nutre del rancore verso qualcuno o, peggio ancora, quando si ha l’intenzione di
compiere una vendetta nei confronti di costui.
Mi spiego.
C’è chi si
preoccupa di essere cortese, per dovere, per interesse o per amore.
C’è chi si preoccupa
di essere scortese, per piacere, per disinteresse o per odio.
C’è chi si preoccupa solo di
essere Se Stesso.
Il che equivale a dire che non
si preoccupa né di essere cortese né di essere scortese.
Direi, che non si preoccupa di
Essere
Anzi, direi che non si
preoccupa, e basta.
È ciò a cui idealmente tendo.
È ciò a cui ognuno di noi
dovrebbe tendere.
È ciò a cui l’Umanità intera
dovrebbe tendere.
Ed è l’unica
condizione possibile perché la parola Pace possa avere un senso.
Non c’è Pace fintanto ci si preoccupa
di amare o di odiare qualcuno al di là di Se Stessi.
Non vi può essere Pace
fintanto ci si preoccupa di qualsiasi cosa nella vita.
È in Pace solo l’Uomo che non
si preoccupa di niente e di nessuno.
Nemmeno di Se Stesso.
Per essere più che mai Se
Stesso.
Essere in Pace con Se Stessi
equivale ad essere in Pace con chiunque altro.
Essere in Pace con Se Stessi
equivale ad essere in pace con il Mondo.
Ergo.
Ignora il prossimo tuo come te
stesso.
Ciò ti farà conoscere Dio.
Il solo Dio
che ti è possibile riconoscere come tale in questa vita.
Te Stesso, libero dal fardello
di Dover Essere.
Te Stesso, finalmente sgombro dell’Essere.
Te Stesso,
libero e liberato dalla libertà - soprattutto dalla libertà.
Nulla, paradossalmente, è più
vincolante della libertà.
In quanto la libertà, proprio
in quanto tale, non libera affatto dal Dover Essere, ma costringe chi la
impugna ad attenersi ad essa nella maniera nella quale, per definizione, ci si
deve ad essa attenere, ossia, preoccupandosi in una maniera ancora più
assidua - nell’esercitare la propria libertà - di non invadere
quella degli altri. E non se ne esce…
A patto si riesca a superare
la preoccupazione di esistere per qualcuno.
Il che spesso equivale a dire
di esistere per qualcuno.
Anche, addirittura, per Se
Stessi.
Essere morti
è una fatica dura, ma dura davvero!
Rainer Maria Rilke
II.
E ora riporto illustrandolo nei dettagli
l’episodio che ha determinato in me questa presa di coscienza in modo chiaro,
deciso e definitivo.
Avevo di fronte a me, tra tutte, la persona
che più riesce ad irritarmi con la sua sola semplice presenza per una ragione
che ora specificherò.
Lo guardavo e avevo la netta consapevolezza
che avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa ed egli non avrebbe cambiato
l’opinione che ha da sempre su di me.
Mi avrebbe sempre continuato a vedere come uno
che si prende troppo sul serio.
O peggio, come uno che si prende sul serio
senza poterselo permettere.
Ignorava che il più grande vantaggio
che si ha nell’essere uomini è quello che chiunque - qualsiasi sia il suo grado
di intelligenza, il suo status sociale e la sua cultura - può permettersi di
poter decidere in qualsiasi momento della propria vita di chiudersi agli altri
e di non uscire più da sè e dal proprio mondo, liberandosi dal
pesante fardello rappresentato dal dover essere per gli altri oltre che per
sé, ossia di render conto agli altri di quel che si dice e di quel
che non si dice, di quel che si fa e di quel che non si fa, e
nel modo in cui si dice quel che si dice e si fa quel che si fa.
E proprio grazie a questo superarli fino
quasi a non vederli più.
E sfido chiunque a non prendersi sul serio
nel momento in cui prende totale possesso di sé e si emancipa
totalmente dalla preoccupazione di cosa possano pensare gli altri del
suo comportamento.
Non vi è nulla di meno serio quanto non
prendersi mai sul serio
Dal momento che se non avessimo gli altri di
fronte a noi perennemente eretti – ed eletti da noi medesimi – a giudici
spietati delle nostre azioni non ci verrebbe mai in mente di non
prenderci sul serio.
“Nui simmo seri, appartenimmo a’morte”
sentenziava Totò nel finale de A Livella.
Facendogli coro e ricorrendo allo stesso tono, io ribadisco…
Io sono serio, anzi, serissimo:
appartengo a Me Stesso… …e alla Mia
Morte.
A volte ripensando a tutta la mia vita essa
mi appare null’altro che come un lungo apprendistato alla scuola che mi ha
indotto al convincimento che la sola patria per uno come me è la solitudine.
Naturalmente, fino ad oggi rassegnarmi a ciò
non è stato facile e mai, credo, lo sarà.
È questa la ragione per la quale
puntualmente eludo questa verità tornando a credere in tutto ciò a cui mi
ero ripromesso mai più avrei creduto in un momento in cui ero sconfortato
quanto lucidissimo.
Ma questa illusione se ne via, presto o
tardi, così come è venuta.
E ciò
non mi sorprende affatto più come mi sorprendeva un tempo.
Anzi, direi che non smetto mai di
attenderla.
Anche nel momento in cui l’illusione
suddetta mi procura l’ulteriore illusione della felicità.
Pur ritrovandomi al settimo cielo, attendo
la caduta, che immancabilmente arriva.
E per l’ennesima volta imparo quello che
già so.
Si è soli.
Ma si può essere liberi.
E si può essere liberi solo se
si è soli.
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