venerdì 18 luglio 2014

I RACCONTI DI VENER dì - Monica Fiorentino



Orfeo

Autrice: Monica Fiorentino

Tratto da _ilcorvodalcantodicristallo


Lettera 21. Lenta la giovane prese a far ruotare il bicchiere fra le dita, stretto nel palmo, allentando a tratti la presa come un gioco, il gioco di un bravo equilibrista, abbassando gli occhi su quel liquido ambrato a lambire i bordi, facendolo brillare alla fioca luce delle lampade intorno. Fuori il silenzio ovattato, sospeso, sembrava compatto come la trama di un soffice gomitolo di lana rossa a dipanarsi. “Come vorrei che questo silenzio potesse durare in eterno, avvolgendo così, col suo manto i fuochi dell’artiglieria a farla tacere, stendendosi come un manto sopra le brutture di questa guerra. Questo mondo di creature in lotta fra loro, perenne”.
Chiuse gli occhi, Olivia, sospirando, gustando la pace che aleggiava lungo le strade ormai solo di notte, al cessare delle azioni belliche, o meglio all’entrata in vigore “del cessate il fuoco”, che almeno al calar del tramonto le belve addestrate alla guerra rispettavano. Stretta nella sua uniforme scura, la lunga coda d’ordinanza alta sul capo e le braccia conserte, cullò ancora una volta la sua acquavite inspirandone l’odore, forte “Come sarebbe bello…”.
Alle sue spalle, le dita di lui si posarono sulla tastiera a farla vibrare, nuda: note a morire. Veloci. Bianco e nero. I tasti a seguirsi. Piume a cadere. Rincorrersi. Fughe e ritorni. Dita a volare. Il collo flesso. Scala a salire. Le tempie a pulsare. Il battito del cuore. Le ossa dei polsi, in sincrono. Triste piano sequenza.
Serrando le labbra lei sollevò gli occhi, contemplando dietro i vetri lo zampettare veloce di un corvo, vigile, guardingo, sospettoso anch’egli di quel silenzio a cui di certo era disabituato, e di colpo, il frullare spiegato delle sue ali a fuggire, la fece sorridere; di giorno era ormai impossibile vedere uccelli, un corvo dal canto di cristallo, era da tempo che non lo si vedeva, attorno non cresceva altro che morte, non s’udivano che urla di uomini a morire, non si respirava che puzzo di carni vive, ossa spezzate di fresco, lacrime di stupri, seguiti istantaneamente da spari a chetare dopo l’uso, le grida delle donne, addormentandole per sempre. In strada si procedeva ormai fra resti ammassati di Esseri Umani, come se non si facesse più parte della stessa specie: pance sventrate, crani fracassati, budella macellate, crivellate a crudo,  pullulanti di larve, a divenire cibo per cani che ne avevano a sazietà.
Un altro edificio era saltato quella mattina. Un sorso robusto le fece ricordare, nei riverberi di quel liquido, i tratti della tela di Klimt “Il Bacio” col suo fiume d’oro e fusi sgargianti. “Nessun topo costruirebbe mai una trappola per topi”, ricordò la frase del famoso scienziato, scuotendo il capo, solo l’Essere Umano era divenuto capace di divorare se stesso, distruggendo ciò che gli era stato creato intorno, spingendosi ad annientare finanche il suo respiro; da bambina ricordava d’aver imparato che fra i più feroci animali in natura a nutrirsi di carne umana c’era la tigre, poi era stata inventata la guerra, probabilmente, una catastrofe dove l’Uomo aveva prevalso con la sua boria, la sua forsennata ingordigia, imponendo le proprie sanguinarie gesta, la sua becera ignoranza, vantandola per cosa buona; l’animale dal sistema immunitario perfetto per eccellenza le sembrava di ricordare fosse lo squalo, forse in mare le creature desideravano vivere più di quelle in terra.
Adagio l’uomo si levò dalla sedia e chiuse delicatamente il coperchio del  pianoforte, carezzandosi distrattamente la tempia sinistra, aggiustandosi i corti capelli bianchi, affondandoci dentro le dita “Ti ho guardata dormire stanotte”, la sorprese stringendola di spalle, aderendo alla sua schiena, inspirando forte il suo profumo di donna e soldato, fiori e coperte vecchie di caserma.
“Lo immaginavo!” sorrise lei, lasciandosi avvolgere “Riuscivo a sentirti nel sonno” sollevò in alto la testa rimirando la luna uscire dalle nuvole.
“E mi hai ri-conosciuto, così, subito?” incalzò lui, abbozzando una smorfia. “È stato facile riconoscerti… dalle tue ali... Orfeo!” gli offrì lei la nuca, piegandola, come stelo di rosa, donna in quella mimetica troppo grande per le sue forme, a coprirne ogni tratto, e gli anfibi grossi ai piedi a cancellarne identità e pensieri.
L’uomo annuì. “Soltanto da quelle?... le mie ali?”, le mani di lei si posarono allora sulle sue dolcemente: “… dalla loro purezza”. Si strinse la donna a quel corvo dalla voce di cristallo: “I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così alle volte vale la pena non dormire pur di stare dietro a un desiderio.
“Castelli di rabbia” di Baricco, lo ricordi? Fosti tu a regalarmelo”.
Piano lui le carezzò le nocche, riconoscendo la destrezza con cui aveva imparato a maneggiare sapientemente ferro e fuoco, lupo scaltro, gazza nivea, stratega imbattibile da guerra, astuta, abile e morbido grembo; aveva dovuto apprendere bene ed in fretta, chi meglio di lui poteva saperlo.
“Olivia…” sussurrò d’un tratto l’uomo, cereo, inghiottendo un singulto d’impotenza, serrando forte i suoi meravigliosi occhi viola, percorsi da un lampo d’orrore, facendo per allontanare i pensieri che gli si erano materializzati di colpo dinnanzi, inebetito, di fronte ad uno scempio tanto grande, che non conosceva arresto, rispetto per nessuno. Guerra, la si chiamava, ma in cielo aveva ben altro nome. Lui lo sapeva. Perfettamente. Le ali ripiegate sotto la sua camicia iniziavano a spingere e lui si portò al petto le mani della donna “Olivia, posso chiederti una cosa?” la guardò accorato “… un desiderio mio?”
Solitamente non avanzava mai richieste, la giovane carezzandogli la guancia gli sorrise dolcemente invitandolo a confidarsi, e lui le posò la testa sul seno:  “Abbracciami, per favore!”.
Sarebbe stata la loro ultima notte. Ultima per Olivia. Nonostante lui fosse stato pronto a dare la sua stessa anima per capovolgerne il destino, se fosse servito a qualcosa. “Hai paura, Orfeo?” gli si rivolse lei, ignara.
L’uomo voltandosi verso il pianoforte, chinando il capo fece cenno di no, giocherellando con la matita sui fogli della sua moleskine: Soldato di pace/S’incolla fra le tue ciglia umide/il fischio del vento. Uno haiku, ne scriveva sempre quando diveniva un’urgenza. Fiere di leoni dalla criniera d’oro, presero ad avanzare lentamente attorno alla donna,  inspirandone l’odore alle caviglie, il calore, spalancando le fauci, accerchiandola col loro manto screziato “No, Olivia non ho paura…”.

Procede per particolari offerti al lettore con intensa forza, questo nuovo racconto di Monica Fiorentino. La parte centrale ci ricorda i raccapriccianti orrori della guerra, fuori, ma “dentro” c’è un po’ di spazio per una quiete che rende possibile il dialogo, la tenerezza. In mezzo agli orrori persino l’amore appare come una nota stonata, fuori posto, eppure è un sentimento altrettanto vivo quanto è quello della rabbia.
In “Orfeo” trova spazio anche una riflessione filosofica che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva: “Solo l’Essere Umano era divenuto capace di divorare se stesso, distruggendo ciò che gli era stato creato intorno, spingendosi ad annientare finanche il suo respiro.”
Parole che scuotono e invitano a riflettere su un’ “unicità” tutt’altro che da invidiare. È essenziale tener sempre presente questa onnipotenza potenzialmente sempre distruttiva e auto-distruttiva, perché incapace di rendersi conto che il “tu” e l’ “io” sono intimamente collegati. L’arte di Monica Fiorentino ce lo ricorda, voce potente e limpida che inneggia alla semplicità di questa verità.

Della stessa autrice: La rosa di Hermes

Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it

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