Orfeo
Autrice: Monica Fiorentino
Tratto da _ilcorvodalcantodicristallo
Lettera 21. Lenta la giovane prese a far ruotare il bicchiere
fra le dita, stretto nel palmo, allentando a tratti la presa come un gioco, il
gioco di un bravo equilibrista, abbassando gli occhi su quel liquido ambrato a
lambire i bordi, facendolo brillare alla fioca luce delle lampade intorno.
Fuori il silenzio ovattato, sospeso, sembrava compatto come la trama di un
soffice gomitolo di lana rossa a dipanarsi. “Come vorrei che questo silenzio
potesse durare in eterno, avvolgendo così, col suo manto i fuochi dell’artiglieria
a farla tacere, stendendosi come un manto sopra le brutture di questa guerra.
Questo mondo di creature in lotta fra loro, perenne”.
Chiuse gli
occhi, Olivia, sospirando, gustando la pace che aleggiava lungo le strade ormai
solo di notte, al cessare delle azioni belliche, o meglio all’entrata in vigore
“del cessate il fuoco”, che almeno al calar del tramonto le belve addestrate
alla guerra rispettavano. Stretta nella sua uniforme scura, la lunga coda
d’ordinanza alta sul capo e le braccia conserte, cullò ancora una volta la sua
acquavite inspirandone l’odore, forte “Come sarebbe bello…”.
Alle sue
spalle, le dita di lui si posarono sulla tastiera a farla vibrare, nuda: note a
morire. Veloci. Bianco e nero. I tasti a seguirsi. Piume a cadere. Rincorrersi.
Fughe e ritorni. Dita a volare. Il collo flesso. Scala a salire. Le tempie a
pulsare. Il battito del cuore. Le ossa dei polsi, in sincrono. Triste piano
sequenza.
Serrando le
labbra lei sollevò gli occhi, contemplando dietro i vetri lo zampettare veloce
di un corvo, vigile, guardingo, sospettoso anch’egli di quel silenzio a cui di
certo era disabituato, e di colpo, il frullare spiegato delle sue ali a
fuggire, la fece sorridere; di giorno era ormai impossibile vedere uccelli, un
corvo dal canto di cristallo, era da tempo che non lo si vedeva, attorno non
cresceva altro che morte, non s’udivano che urla di uomini a morire, non si
respirava che puzzo di carni vive, ossa spezzate di fresco, lacrime di stupri,
seguiti istantaneamente da spari a chetare dopo l’uso, le grida delle donne,
addormentandole per sempre. In strada si procedeva ormai fra resti ammassati di
Esseri Umani, come se non si facesse più parte della stessa specie: pance
sventrate, crani fracassati, budella macellate, crivellate a crudo, pullulanti di larve, a divenire cibo per cani
che ne avevano a sazietà.
Un altro
edificio era saltato quella mattina. Un sorso robusto le fece ricordare, nei
riverberi di quel liquido, i tratti della tela di Klimt “Il Bacio” col suo
fiume d’oro e fusi sgargianti. “Nessun topo costruirebbe mai una trappola per
topi”, ricordò la frase del famoso scienziato, scuotendo il capo, solo l’Essere
Umano era divenuto capace di divorare se stesso, distruggendo ciò che gli era
stato creato intorno, spingendosi ad annientare finanche il suo respiro; da
bambina ricordava d’aver imparato che fra i più feroci animali in natura a
nutrirsi di carne umana c’era la tigre, poi era stata inventata la guerra,
probabilmente, una catastrofe dove l’Uomo aveva prevalso con la sua boria, la
sua forsennata ingordigia, imponendo le proprie sanguinarie gesta, la sua
becera ignoranza, vantandola per cosa buona; l’animale dal sistema immunitario
perfetto per eccellenza le sembrava di ricordare fosse lo squalo, forse in mare
le creature desideravano vivere più di quelle in terra.
Adagio l’uomo
si levò dalla sedia e chiuse delicatamente il coperchio del pianoforte, carezzandosi distrattamente la
tempia sinistra, aggiustandosi i corti capelli bianchi, affondandoci dentro le
dita “Ti ho guardata dormire stanotte”, la sorprese stringendola di spalle,
aderendo alla sua schiena, inspirando forte il suo profumo di donna e soldato,
fiori e coperte vecchie di caserma.
“Lo
immaginavo!” sorrise lei, lasciandosi avvolgere “Riuscivo a sentirti nel sonno”
sollevò in alto la testa rimirando la luna uscire dalle nuvole.
“E mi hai
ri-conosciuto, così, subito?” incalzò lui, abbozzando una smorfia. “È stato
facile riconoscerti… dalle tue ali... Orfeo!” gli offrì lei la nuca,
piegandola, come stelo di rosa, donna in quella mimetica troppo grande per le
sue forme, a coprirne ogni tratto, e gli anfibi grossi ai piedi a cancellarne
identità e pensieri.
L’uomo annuì.
“Soltanto da quelle?... le mie ali?”, le mani di lei si posarono allora sulle
sue dolcemente: “… dalla loro purezza”. Si strinse la donna a quel corvo dalla
voce di cristallo: “I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si
può prenderli in giro più di tanto. Così alle volte vale la pena non dormire
pur di stare dietro a un desiderio.
“Castelli di
rabbia” di Baricco, lo ricordi? Fosti tu a regalarmelo”.
Piano lui le
carezzò le nocche, riconoscendo la destrezza con cui aveva imparato a
maneggiare sapientemente ferro e fuoco, lupo scaltro, gazza nivea, stratega
imbattibile da guerra, astuta, abile e morbido grembo; aveva dovuto apprendere
bene ed in fretta, chi meglio di lui poteva saperlo.
“Olivia…”
sussurrò d’un tratto l’uomo, cereo, inghiottendo un singulto d’impotenza,
serrando forte i suoi meravigliosi occhi viola, percorsi da un lampo d’orrore,
facendo per allontanare i pensieri che gli si erano materializzati di colpo
dinnanzi, inebetito, di fronte ad uno scempio tanto grande, che non conosceva
arresto, rispetto per nessuno. Guerra, la si chiamava, ma in cielo aveva ben
altro nome. Lui lo sapeva. Perfettamente. Le ali ripiegate sotto la sua camicia
iniziavano a spingere e lui si portò al petto le mani della donna “Olivia,
posso chiederti una cosa?” la guardò accorato “… un desiderio mio?”
Solitamente
non avanzava mai richieste, la giovane carezzandogli la guancia gli sorrise
dolcemente invitandolo a confidarsi, e lui le posò la testa sul seno: “Abbracciami, per favore!”.
Sarebbe stata
la loro ultima notte. Ultima per Olivia. Nonostante lui fosse stato pronto a
dare la sua stessa anima per capovolgerne il destino, se fosse servito a
qualcosa. “Hai paura, Orfeo?” gli si rivolse lei, ignara.
L’uomo
voltandosi verso il pianoforte, chinando il capo fece cenno di no,
giocherellando con la matita sui fogli della sua moleskine: Soldato di pace/S’incolla fra le tue ciglia
umide/il fischio del vento. Uno haiku, ne scriveva sempre quando diveniva
un’urgenza. Fiere di leoni dalla criniera d’oro, presero ad avanzare lentamente
attorno alla donna, inspirandone l’odore
alle caviglie, il calore, spalancando le fauci, accerchiandola col loro manto
screziato “No, Olivia non ho paura…”.
Procede per particolari offerti al
lettore con intensa forza, questo nuovo racconto di Monica Fiorentino. La parte centrale ci ricorda i raccapriccianti
orrori della guerra, fuori, ma “dentro” c’è un po’ di spazio per una quiete che
rende possibile il dialogo, la tenerezza. In mezzo agli orrori persino l’amore
appare come una nota stonata, fuori posto, eppure è un sentimento altrettanto
vivo quanto è quello della rabbia.
In “Orfeo” trova spazio anche una
riflessione filosofica che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva: “Solo
l’Essere Umano era divenuto capace di divorare se stesso, distruggendo ciò che
gli era stato creato intorno, spingendosi ad annientare finanche il suo respiro.”
Parole che scuotono e invitano a
riflettere su un’ “unicità” tutt’altro che da invidiare. È essenziale tener
sempre presente questa onnipotenza potenzialmente sempre distruttiva e
auto-distruttiva, perché incapace di rendersi conto che il “tu” e l’ “io” sono
intimamente collegati. L’arte di Monica
Fiorentino ce lo ricorda, voce potente e limpida che inneggia alla
semplicità di questa verità.
Della stessa autrice: La
rosa di Hermes
Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it
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