Oggi, due ottobre, si festeggiano gli Angeli Custodi ma è anche,
dal 2005, la Festa dei Nonni. Vogliamo ricordarli con un brano – secondo noi
bellissimo – che ne ricorda “l’intima presenza e necessità”, anche (e forse soprattutto) quando
smettono gli abiti dell’efficienza imposti dalla società e diventano bisognosi
di cure.
Mi prendo cura della nonna, senza
gioia. Lei sente nelle mie mani il desiderio della fuga, e con lo sguardo mi
supplica, che non la abbandoni.
Non l’ho mai amata. Quando
eravamo piccoli ci picchiava con durezza. E nelle notti di vento ci spaventava
dicendo «se non dormite subito vi faccio mangiare dagli Esseni», e noi ci
mettevamo a tremare.
Ma se diceva «chiamo il
Samaritano», allora, ficcavo la testa sotto le mani: il Samaritano che arrota
il coltello, il Samaritano col mantello per rapire i bambini che non dormono;
sfuggendo al suo manto già aperto ci addormentavamo di colpo.
Ma ora che devo difenderla dalle
mosche ho pietà del suo corpo.
La lingua paralizzata aggroviglia
parole; il peggio è che parla sempre, è un tormento quel suo insensato sermone.
Vorrei che smettesse e «taci», le dico, «sta’ tranquilla», con dolcezza,
frenando la mia ira. È a causa sua che sono prigioniera, che ogni ora mi
avvicina a Eliashib, alla rovina.
A forza di ascoltarla, però, la
faticosa musica del suo delirio sembra avere una ragione.
Ella ha perduto il linguaggio, e
ora lo riscopre, come un infante.
Nel suo ricostruire le parole,
capisco molte cose della nostra lingua, e come un termine derivi da un altro;
ma soprattutto afferro la chiave dei suoi errori, i segreti pensieri che la
portano a dire una cosa per l’altra.
Il suo faticoso esercizio è per
me prezioso come l’insegnamento di un grammatico. Seguo con passione la sua
ricerca, che diventa la mia.
Lei sempre meno ritrova le
parole: ormai le inventa, o ne ricorda di antiche, più sonore e armoniose, e
tra di sé ne gode. La nonna sembra una vecchia stupida e invece sta ritrovando
un suo misterioso linguaggio.
È con lei, per la prima volta,
che entro nei segreti della parola.
Chiuse nella casa, sole nelle ore
dolorose, io e la nonna escludiamo il mondo, e diveniamo compagne di un gioco
sacro. Io la condurrò per mano fino alla morte, come una piccola compagna alla
fontana.
Le visite dei parenti la
infastidiscono. Finge sempre di dormire, per mandarli via.
Gli altri le portano la morte, io
le porto piccole storie: le leggerezze di Jemina e Kezia, o qualche buffo
pensiero. Azzardo persino metterla a parte di alcune mie imprese; e lei che fu
tanto severa, ora s’illumina tutta delle disubbidienze, come fossimo complici.
Sole, e pure dal mondo, che l’una
nell’altra dimentichiamo, con la nonna compiamo la nostra cerimonia di
apprendimento. La sua vita, che fu tutta inutile, diventa nell’ultimo guizzo
fonte di conoscenza.
La nonna si aggrappa a me perché
in lei scorra la giovinezza. E intanto le sue mani mi trasmettono la più pura
energia, il desiderio.
Ora che la morte è vicina (la
contrasto, ma non posso fermarla), tutto desidera: ciò che ebbe e ciò che non
ebbe mai.
La nonna invoca una bambola, Ester;
suo padre la scoprì mentre la contemplava (aveva appena finito di cucirla) e la
buttò nel fuoco, perché è peccato riprodurre la figura dei viventi.
Di nascosto lavoro a una bambola,
rubando qualche vecchia pezza a mia madre. Cucio insieme gli stracci,e le
dipingo il viso di carbone e minio: è proprio Ester. Perché la raffigurazione
sia perfetta, le metto in mano la corda che appenderà Aman.
Ester, chiama la nonna. Aspetta,
non è ancora pronta, mancano i capelli. Colgo un ciuffo di croco. Ecco la chioma
di Ester, tinta d’oro per l’amore.
(tratto da «Vangelo secondo Maria» di Barbara Alberti)
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