Il tempo di risuscitare
Autrice: Giuseppina
Zupi
La pianta
che le avevano regalato era un tripudio di colori: i fiori di un rosso
smagliante, le foglie verde smeraldo, tese, dai contorni netti. Un trionfo
della natura.
Come la
sua vita, completamente appagante, colma di colore.
L’aveva
collocata in salone e la contemplava con gioia e soddisfazione. Annaffiava, somministrava il concime quando
occorreva e la curava costantemente.
Con il
trascorrere del tempo, poiché la pianta era sempre di un vivido splendore, iniziò
a trascurarla: ad innaffiarla meno, a guardarla meno, a goderne di rado. Venne
un tempo che la
dimenticò. Si accorse che la terra era divenuta arida e secca
e i colori tendevano sbiadire.
Come era
potuto accadere?
La portò
fuori il balcone, auspicando che l’aria tiepida della primavera imminente
avrebbe giovato. Ricominciò ad annaffiarla e a curarla quotidianamente. Troppo
tardi. Malgrado tutte le attenzioni la pianta percorreva, inarrestabile, una
fase discendente. Non scaturiva alcun beneficio dall’acqua, dalle cure, dalle
attenzioni. Caddero prima le foglie, poi i petali dei fiori. Rimasero due
rametti spogli e secchi che rappresentavano l’epilogo di una bellezza antica e
smarrita. Si svuotarono di linfa anche i due rametti che divennero due canne
bianche, come ossa di morti lontani.
Come la
sua vita che rispecchiava il percorso della pianta, seguendone il decorso.
Procedeva
tutto per il meglio, non si presentavano particolari difficoltà. Era bastato ritenere
questo stato di grazia scontato e perenne, per dimenticare di alimentarlo ed
era iniziato il diagramma del declino.
Dolore,
distacchi, tradimenti, problemi irrisolti, avevano prosciugato la sua linfa
vitale.
Percepiva
le gambe simili alla pianta essiccata, camminavano ma prive di volontà e
consapevolezza.
“Sono un
morto che cammina”, sosteneva il Giudice Borsellino, pensiero premonitore di
una fine imminente.
La sua non
era una fine fisica, materiale, corporea ma la desertificazione del cuore, la
morte dell’anima, situazione in cui, la volontà o anche una goccia di amore non
scalfiscono l’aridità ormai stratificata.
Per
pigrizia non svuotò mai il vaso, proponendosi prima o poi di farlo. Tuttavia
quando, con la pompa dell’acqua, annaffiava i vasi del balcone, automaticamente
versava l’acqua anche in quello della pianta morta.
Quel che
rimaneva della pianta, per trascuratezza, rimase in quello stato desolante per
tre lunghi anni.
Una
mattina, alzando la serranda della stanza, vide penetrare un raggio di sole
sottile come una lama. Si affacciò sul balcone.
Nel vaso
della morte, abbarbicato alle canne bianche, vide un sottile rametto, appena
germogliato, con un grappolo di tenere foglioline verde chiaro.
La povera
pianta era risuscitata dopo tre anni, quando ormai era impossibile crederci.
La
resurrezione dalla morte avvenne dopo tre giorni, quando forse nessuno o pochi
credevano fosse possibile.
Forse
sarebbe risorta dalla morte della sua vita, anche se ora non poteva crederci.
Giuseppina
Zupi ritorna con un racconto
pregno di significati che vanno oltre il visibile, l’immediato. La pianta
colorata e piena di vita, prima, morente, poi, indica i cambiamenti che sempre
possono avvenire – e avvengono – nella vita di tutti noi.
Siamo esseri complessi e, come tali, anche
contraddittori; in noi albergano contemporaneamente la vita e la morte nelle
loro infinite sfumature.
La scrittrice Giuseppina Zupi è molto abile nel parlarci di argomenti così sottili
e delicati con un esempio che appartiene alla quotidianità di tutti noi. Una
semplice pianta d’appartamento diventa simbolo di un’evoluzione insperata, nel
ciclo vita-morte-rinascita nel quale possiamo riconoscere un senso che
altrimenti mancherebbe. La “desertificazione del cuore” è altra immagine
indovinatissima, nel contesto del racconto, e viene a dirci che il miracolo è
possibile – e, soprattutto, è tale – proprio quando le condizioni sembrano più
avverse, più votate alla sua non-possibilità.
Per
contattare l’autrice: giuseppina.zupi@mit.gov.it
Della
stessa autrice: La
metafora della vita
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Poesia
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