Monica
Autrice: Monica Fiorentino
(tratto da _lagrudallelungheali)
Lettera 21. L’aveva amato, tanto. Completamente. Totalmente. Li amava entrambi, incondizionatamente. I suoi due amori. Loro. Quella mano che aveva tenuto salda la sua, per guidarla: lui. Quella manina che lei aveva tenuto premuta al suo seno: la loro bambina. Tutti avevano sempre detto di lei che era una donna forte, e forte si sentiva. Si era sempre sentita. Libera e forte, come una roccia. Amore non è sinonimo di fragilità, né di debolezza, se questo amore è amore, se ha radici “sane”, aveva sempre sottolineato lei stessa, crescendo in quel totale, limpido, forte, coraggioso abbandono. Scrivendone nelle sue poesie. Scrivere è un mestiere liberatorio, affatto facile, rende custodi delle parole, ne rende responsabili, e impone di prendersene cura. Questo lei lo aveva sempre saputo. Di quella donna semplice e minuta, lui, il soldato e l’uomo, aveva amato tutto, sin da subito. Continuava a farlo, incessantemente, a prescindere. Talvolta per prenderla in giro le diceva che di lei, di primo acchito si era innamorato della voce, poi erano venute le lunghe gambe. Monica, la sua Monica.
In
quell’istante lei soffiò un altro haiku al cielo, oltre la luna, più lontano
ancora, in alto; fra le trame della notte, oltre la guerra, il lamento
dell’artiglieria, quel sentore marcio di corpi in putrefazione, messi a marcire
per le strade insieme ai vivi, tranciati dalle loro membra ancora calde, fra il
puzzo di piscio stagnante, le grida di tormento e il giogo della violenza,
nelle sopraffazioni di ventri vergini ad essere squarciati. Affidando in punta
di piedi, quella sua piccola poesia all’eterno.
In alto, laddove un aviatore aveva scritto di principi, volpi, deserti,
rose e serpenti, riponendola nell’attesa, affinché un giorno venisse ri-trovata,
dopo di lei; e nel carezzarla distrattamente, quella mano, sfiorandola fra le
pagine del cielo, avesse potuto sorridere di nuovo, ancora, almeno un’altra
volta. L’amore è qualcosa che ha a che fare con l’attesa, in qualche modo lei
ne era sempre stata certa. Come era sicura della persona che avrebbe trovato
quel suo haiku. L’aveva composto nella sua mente pensando a lui, quel giorno di
luglio, durante la sua ennesima notte di
assenza, dopo che la loro splendida bambina si era finalmente addormentata, e
prima o poi, non aveva dubbi, l’avrebbe ri-trovato lì.
Ri-recitandolo
a labbra serrate, ne contò in testa le sillabe, attenta, soffiandolo verso il
cielo, puntando in alto, il più in alto possibile, affidando al tempo la sua
confessione, la sua promessa, la sua risposta, il suo divenire: Post Scriptum
col rosso del cuore Ps. Ti amo / S’apre all’orizzonte/ l’arcobaleno. Dritta
dinanzi a quel pianoforte bianco, dove lui, il soldato, il marito, l’uomo, il
padre, soleva suonare di sera per le sue due donne; perdendo completamente
Monica i propri occhi nel contemplare quella lunga rosa dai petali scarlatti,
ancora viva e vibrante, nel suo bicchiere colmo d’acqua sistemata al centro del
ripiano laccato dell’imponente strumento; la rosa che lui le aveva donato dopo
la passione, baciandole la fronte, stretta al suo petto, la loro ultima notte,
e a cui lei aveva dato il nome di “Godot”,
la splendida Godot dalle vesti di seta, si era sorpresa a sorridere
nuovamente, fuggendo di colpo in un unico volo di farfalle a ridisegnarle la
tempia sinistra, addormentandola in un rivolo di vernice rossa dall’odore acre
di corpo umano, verso dopo verso, nell’infrangersi violento del rinculo ben
assestato del fucile, a incalzare perfetto, bevendo di lei anima e carne,
inzuppandole i capelli, colandole a chiazze informi sulla gonna,
inzaccherandole di cervella gli stivali, piegandola per sempre su quel
pavimento fetido, sudario di un supplizio chiamato: guerra, lasciandola
scivolare in ginocchio, posta in estatica posa.
“... e le
sue dita tremanti, presero a carezzare quelle piume, la veste blu di quelle
lunghe ali incassate nella carne, all’altezza delle scapole, morbide, delicate,
eteree, affondandovi dentro i polpastrelli per saggiarne il velluto, chinandosi
a poggiarvi di riflesso le labbra; e a quel tocco lui chiuse gli occhi - quel
luccichio viola di lacrime - muto, ascoltando il discorrere del cuore di lei
con la sua anima.”
Da una parte la luce, l’energia positiva e costruttiva
della sensibilità artistica; dall’altra, tutto l’orrore dell’odio cieco e
ottuso. Monica Fiorentino continua a
indagare con efficacia un dualismo, una contrapposizione che ha da sempre
segnato la storia dell’uomo. A leggere i suoi racconti, viene da ribadire
ancora una volta che dovremmo dar voce sempre più agli artisti, per renderci
davvero conto della profonda stupidità dell’odio in tutte le sue forme. Fino a quando, invece, ascolteremo politici ed
economisti, le loro “ragioni”, la distruzione avrà sempre la meglio.
Monica
Fiorentino ci dice anche che c’è qualcosa di altrettanto
concreto, altrettanto valido, di ciò che cade immediatamente sotto i nostri
sensi. L’artista non vuole edulcorare, stemperare gli orrori della guerra, e le
sue sono visioni che dovremmo tener ben presenti, quando si fa avanti qualche “grande
uomo” che ci parla di “guerre necessarie”. Oltre queste ottusità, possiamo
lasciarci guidare dal segno, dalla nota, dalla visione dipinta o plasmata: in una
parola, dall’arte.
Della stessa autrice: Sofia
Nessun commento:
Posta un commento