Tancredi
Autrice: Monica Fiorentino
(tratto da _ilgabbianodallacodabianca)
Lettera 21. A volte i ricordi sono come fiori d’acciaio, quando si è soli a contemplare la luna, senza lei da stringere, lei da abbracciare, lei da ascoltare, lei con cui condividere la vita, il tempo, un altro sogno in più, un altro passo ancora, lei dalla miriade di colori così simili ai propri.
Pensava lui, bicchiere vuoto fra le
mani. Vuoto. Come i suoi pensieri senza più lei. Era morta Monica, la sua
Monica, il ferro inclemente di un fucile nello scandire violento della sua
danza, aveva bevuto di lei anima e sangue, il suo sangue, nutrendosi di ogni
sua fibra, crivella insaziabile, macellandole i muscoli, battendole la testa,
risucchiandole ogni ansito, di spalle come il più ignobile degli assassini;
l’aveva ri-trovata lui, riversa, rosa rossa fra le dita, avvolta nel sudario
delle sue stesse cervella sparse a far da corona, incensata da quell’odore acre
di corpo umano che restava delle sue viscere ancora calde, e a quella vista il
soldato, lo scienziato e l’uomo non aveva retto. Scienziato, prestato al
servizio della guerra, aveva pagato con la carne di colei che amava il suo
scotto, il prezzo della guerriglia, della fiera umana, cieca a fare razzia.
Monica. La sua donna, la sua amante, la
sua confidente, compagna, amica, il suo sorriso, quelle dita che l’accarezzavano
sfiorando le corde più intime dei suoi sensi, pizzicando le sue voglie, laddove
sapeva poi farle divenire passione incontrollata nel modo più sublime, Monica,
il seno sopra cui aveva dormito notti di luna, la madre di sua figlia, quel
grembo, lei, divenuta di colpo su quel pavimento, muta bambola di plastica
dalla bocca spalancata. Senza respiro.
Infilando una mano fra i capelli,
Tancredi girò il capo, cacciando indietro l’ultima immagine che aveva di sua
moglie, facendo tintinnare il ghiaccio rimasto contro le pareti del bicchiere,
cercando oltre, nel buio del giardino qualcosa, anche solo un dettaglio che
potesse permettere una pausa di requie ai suoi pensieri. Due grandi occhi
luminosi dietro un cespuglio, curiosi, lo stavano osservando da chissà già
quanto tempo, e nel ricambiarne il saluto lui s’accorse di aver abbozzato un
sorriso, forse la loro Gala era in amore, non in “calore” l’avrebbe corretto
subito lei, posandogli un dito sulle labbra, Monica non adorava certe “parole”,
l’aveva imparato col tempo, e sapeva sempre correggerle al momento giusto; ed a
dirla tutta a lei non erano mai piaciuti neppure in modo tanto plateale gli
amici felini, il giorno in cui lui si era presentato a casa con quella micia
fra le braccia per regalarla alla loro bambina, lei per tutta risposta gli
aveva messo subito il broncio, sicura che la bimba l’avrebbe avuta vinta e la
gatta sarebbe rimasta. Uno dei loro rari battibecchi, quelli che lei finiva
puntualmente per dimenticare travolta dai suoi baci, una volta nel loro letto,
stretta fra le sue braccia, fra quelle lenzuola dove entrava il cielo intero.
Il loro modo di far pace. Così diverso dalla pace degli Uomini. Da quelle
mitraglie a ripetizione, quelle urla agonizzanti, il crollare dei palazzi, le
sirene perennemente spiegate, i pugni stretti, le bombe a brillare sul pianto
di innocenti. “I bambini in terra sono angeli”, lui le aveva detto un
giorno, tenendola stretta a sé cercando
di raddrizzarle il passo barcollante, sotto l’ennesima pioggia di proiettili e
grida a sventrare le loro strade, mentre Monica aggrappata al suo braccio
tentava di trovare nuova energia per avanzare, facendosi forza, spossata dalla
corsa, proteggendo con le mani quel suo pancione enorme.
La sua Monica. Non apriva più quel
quaderno lui, da quanto tempo? L’aveva dimenticato, il quaderno in cui lei
appuntava i suoi haiku, con inchiostro blu e in rosso. Era così, Monica scriveva in blu e poi gli haiku che
lui sottolineava come i più belli, lei li riscriveva in rosso. Era fatta così.
Erano fatti così loro, quando il tempo significava felicità. Insieme.
Posò il bicchiere, sperando di essere
riuscito a lasciarvi dentro il cuore. “Tancredi!” solo lei sapeva scandire così
bene il suo nome, ed alle volte a lui
sembrava di udirla ancora, scendere in giardino a cercarlo come soleva
fare quando s’attardava a leggere, sotto il patio di notte, godendo dei pochi
momenti in cui il frastuono della guerra sembrava voler lasciar pace alle loro
orecchie. Lo stesso autore che piaceva ad entrambi, quel Baricco di cui lei
parlava spesso con la luce negli occhi, Monica nel trovarlo intento nella
lettura si soffermava al suo fianco e ne carezzava le pagine, per risalire poi
con la mano ad aggiustargli gli occhiali sul naso, sorridendo di riflesso alla
smorfia che lui faceva d’istinto, aggrottando la fronte al suo tocco,
scoppiando a ridere ogni volta; dopo la guerra avrebbe voluto costruire un
luogo dove poter leggere e stare insieme, facendo ri-fiorire le piante, e
sorridere di nuovo i bambini. Alessandro Baricco, la prima volta lei stessa gli
aveva regalato “City”, ma lui non le aveva mai chiesto quale titolo le piacesse
maggiormente.
A grandi passi attraversò la veranda per
entrare di nuovo in casa, il sonno ritmico della loro bambina lo accolse come
ossigeno a gonfiare i polmoni. La loro piccola, lui l’aveva messa in lei - nido
d’allodola - facendo germogliare quel seme nel suo ventre. Ora era così bella a
dormire serena, l’aveva messa al mondo Monica, con grida inumane, ricordava
bene quel giorno, ogni minima espressione, ogni centimetro di quella mattina
d’estate che aveva cucito la loro pelle in un unico intreccio di trame e
sangue, per sempre. Amava quella bambina, l’amava profondamente. Il lieve
refolo della sera fece frusciare quel prezioso scrigno di haiku appuntati in
blu ed in rosso, sfogliandolo Musica nuda
/La mia finestra sul mondo/ Un pettirosso. Si sorprese Tancredi a pensare
se in fondo, fosse stato mai davvero quello, l’autore preferito di lei.
“Lente le ali di lui si chiusero, attorno alla creaturina addormentata,
prendendola fra i suoi sogni, respirando dello stesso fiato del padre, là
accanto a lei, mentre i suoi occhi di un viola acceso si riempivano di dolore,
angelo dalle piume blu a cullarne il sonno. Era vero, talvolta i ricordi sono
come fiori d’acciaio”
Continua la lunga descrizione di Monica
Fiorentino dedicata alla contrapposizione – lucida, puntuale, precisa – tra
l’orrore e la pace, tra le pennellate della morte e i colori vividi della vita.
Per dire davvero “no!” al’odio con profonda coscienza, dobbiamo essere
consapevoli fino in fondo di ciò attraverso l’odio perdiamo: questo l’autrice
lo sa e ce lo fa notare.
Leggendo “Tancredi” e tutti gli altri racconti di
Monica Fiorentino, l’importanza dei “piccoli” particolari della
quotidianità balza subito agli occhi: potenza dell’arte, che – sola – può far
risaltare il valore immenso di un gesto. Questa possibilità ci fa ribadire che,
se l’artista fosse ascoltato, le guerre cesserebbero davvero.
Leggete e rileggete lentamente questo racconto e
vi accorgerete di quale straordinario inno alla vita è racchiuso in esso! Un
inno che chiede solo di essere ascoltato.
Della stessa autrice: Monica
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