martedì 12 aprile 2016

"La casa sul poggio": l'intervento di Antonio Cuono


Ecco la nuova recensione a “La casa sul poggio” di Michele Di Lieto, edizioni L'ArgoLibro, curata dal dottor Antonio Cuono.
Segue una nota dell’autore, ad ulteriore arricchimento dei testi che stanno fiorendo intorno a questo romanzo che continua a far palare di sé.
Qui trovate la pagina dedicata dalla casa editrice, con tutti i contatti e le info per l’acquisto.

Da Napoli al Cilento, tra Napoli e il Cilento, con frammenti di sogni d’America e di Francia, si svolge l’avventura esistenziale del protagonisti-antagonisti dell’opera letteraria del Giudice Di Lieto: Gesualdo, Tarsio, Carlo, Antonino.
Risalgono al presente i tratti diversi di uno stesso volto che, alla fine delle pagine, scopriamo essere il nostro, gli stessi tratti del nostro volto. Perché tra Napoli e il Cilento, o meglio, tra il Cilento e Napoli, è (ed è stata) la nostra vita, con gli stessi sogni d’America e d’Europa, e le stesse speranze, e la stessa sconfitta.
E così cresce, lentamente cresce, un affetto intenso per Gesualdo e Tarsio, per Carlo e Antonino.
Il loro profilo si delinea e scolpisce, finalmente vero, nello sguardo dell’Autore che, tra le macerie del passato, tra cenere di fuochi e rovi e sogni e muri e pietre, ritrova antichi disegni e fotografie sbiadite, che “accarezzano la sua pietà, perché da essi sprigiona una luce che s’accende nel presente e diventa ricordo e desiderio” e amara consapevolezza.
Perché “l’arte è per definizione contro ogni perdita”.
L’opera del Giudice Di Lieto mi ha riportato alle sfide di grandi artisti contemporanei: “al corpo a corpo Incessante con la storia e le sue tragedie e le sue ferite dolorose” di Anselm Kiefer, o “al pret-a-porter della memoria, macerie d’esistenza” delle installazioni di Cristian Boltanski.
Ma più di ogni altra cosa mi ha fatto andare alle pagine dolenti che Simone Weil dedica all’agonia e alla scomparsa della Civiltà occitana del dodicesimo secolo nel Mezzogiorno di Francia.
E l’intuizione di seguire con lo sguardo la dissoluzione della speranza del formarsi di una vera civiltà meridionale, attraverso la storia dell’edificazione, la vita nei secoli e la fine di una casa contadina, specchio e nostalgia di ogni vita del racconto.
Se il padre si sposa nel 1958, a conti fatti io dovrei avere, più o meno, gli stessi anni di Antonino. E posso testimoniare della verità del racconto. A metà degli anni ’80, gli studi di tecnici rapaci erano letteralmente sommersi di pratiche “219”. Centinaia. Le voci che si sono levate contro tutto questo sono state rare e presto messe a tacere. La storia di questo nostro sfortunato paese ne è una conferma.
La civiltà meridionale è stata assassinata più e più volte, ogni volta che avrebbe potuto nascere e rinascere. Per tutto il nostro Mezzogiorno questa è stata un sventura. Di qui il nostro disprezzo contro il presente.
Eppure: Grazie al Giudice Di Lieto! Per averci permesso di riconoscerci in chi, come e più di noi, nel tempo ha creduto e lottato e poi perso.
E’ ancora Simone Weil a ricordarci che “nella misura in cui contempliamo la bellezza di quelle vite e di quelle idee con attenzione e amore, nella stessa misura l’ispirazione di tempi così lontani e vicini discenderà in noi e renderà a poco a poco impossibile una parte almeno delle bassezze di cui è satura l’aria che respiriamo”.
Ma vorrei chiudere queste brevi note ricordando il dialogo finale dello sceriffo Bell di “Non è un paese per vecchi”. Lo sceriffo racconta di aver fatto un sogno:
C’era mio padre. Ho vent’anni di più di quanti ne aveva lui quando è morto, quindi in un certo senso, è lui il più giovane. Ed era come se fossimo tornati tutt’e due indietro nel tempo.
Io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte, attraverso un passo in mezzo alle montagne: faceva freddo e a terra c’era la neve, e lui mi superava col suo cavallo e andava avanti, continuava a cavalcare senza dire una parola: lui era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa: mi ha sorpassato e io mi sono accorto che teneva una fiaccola, ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi, e il corno delle luce della fiamma che c’era dentro era del colore della luna.
E nel sogno sapevo che stava andando avanti, per accendere un fuoco da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio e quel freddo, e che quando ci sarei arrivato, lo avrei trovato lì.
Poi mi sono svegliato”.

*Antonio Cuono, architetto, storico dell’arte


Ancora un commento: e spero non sia l’ultimo. Anche se de La casa sul poggio si sono interessati in tanti, e non è frequente che in tanti si mettano a leggere (e a scrivere su) un libro. Per giunta di uno sconosciuto. Li ringrazio tutti. Quello di Antonio Cuono è però un commento che si distacca dalle recensioni, tutte di pregio, che hanno accompagnato l’uscita del libro. Non poteva essere diversamente per un uomo, che si interessa di storia dell’arte, dell’arte in generale e non solo di letteratura, e si rivela, al solo primo approccio, un uomo di straordinaria cultura. De La casa sul poggio Antonio Cuono pone in rilievo prima di ogni altra cosa l’aspetto di sfida. Il rilievo non è nuovo. Più di uno, prima di lui, aveva parlato di sfida, di tentativo ambizioso, di disegno grandioso “non sempre riuscito”, per un libro che percorre quattro secoli di storia con tante storie tenute insieme da un filo, la storia di una casa, la storia di una famiglia. Ma Antonio Cuono parla di sfida in un senso diverso se cita ad esempio l’opera pittorica di Anselm Kiefer e Christian Boltansky. Non conoscevo, prima di leggere le note di Antonio Cuono, Anselm Kiefer e Christian Boltansky. Mi sono aggiornato. Si tratta di due grandi dell’arte contemporanea, il primo tedesco, il secondo francese, quasi quasi della mia stessa età, che non si è lontani dal vero se li si considera sovversivi. Entrambi sovvertono infatti i canoni dell’arte tradizionale non foss’altro per i materiali usati, che vanno dal colore alla lacca ai fiori, dalla carta al piombo al vetro, dalle vesti alle foto alle reliquie, e per le dimensioni delle opere che assumono aspetti colossali e di per sé sorprendenti. Sotto questo profilo, Anselm Kiefer e Christian Boltanski non hanno nulla a che spartire con la Casa sul poggio. Il mio libro ha un impianto pur sempre tradizionale, anche se abbraccia quattro secoli di storia, e lo stile, pur da tutti elogiato, non ha niente di scioccante e paradossale, tanto è semplice e lineare (almeno così la penso io). Senonché, Anselm Kiefer e Christian Boltanski hanno un altro tratto in comune, e consiste in ciò: che fanno oggetto delle loro esperienze artistiche la memoria, anche quando si tratti di memoria scomoda, e riporti alla mente periodi dolorosi che nessuno vorrebbe ricordare (Kiefer), anche quando si tratti di memoria del quotidiano e faccia solo rivivere “macerie d’esistenza” (Boltansky). Sotto questo profilo, capisco l’accostamento che Antonio Cuono ha voluto fare tra le opere di Anselm Kiefer, Christian Boltanski e La casa sul poggio. Perché anche il mio libro è un libro di memorie, memoria storica del passato (la rivoluzione partenopea del 1799, le migrazioni di fine ottocento: i “sogni d’America e di Francia” di Antonio Cuono), memoria storica più recente (l’esperienza del dopo terremoto dell’80, la fine della società contadina) dove più emerge l’aspetto di denuncia (può parlarsi di romanzo-denuncia?)  che io considero tratto peculiare del libro. Tratto sul quale vedo tutti d’accordo, per quel legame evidente tra presente e passato, sul quale spesso mi soffermo, e quel precorrere i tempi che caratterizza molte figure del libro. Memoria, denuncia, necessità di salvare dall’oblio la nostra storia, recente ed antica. Necessità, soprattutto  per i giovani (che inviterei a leggere almeno una parte del libro, se non vogliono leggerlo tutto), di scoprire e tener viva la storia dei padri, perché la storia del presente sempre si congiunge alla storia del passato, e perché i giovani sono sempre destinati a ritrovare i padri, né più né meno come il figlio ritrova, o è destinato a ritrovare il padre nel sogno dello sceriffo Bell, nel libro di Cormac Mc Carthy. Memoria, denuncia, necessità di salvare la nostra storia, perché ci aiuti a capire, fors’anche a superare “le bassezze dell’aria che respiriamo” (Simone Weil, sempre citata da Antonio Cuono).  A proposito di Simone Weil, della quale qualcosa ho letto (anche se di tutt’altra natura), io non so se, e fino a che punto, la Weil fosse pessimista. Io lo sono, e questo traspare nel mio libro dall’inizio alla fine. Non vorrei però trasmettere il mio pessimismo. Del quale non c’è ragione di essere fieri. Soprattutto non vorrei trasmettere il mio pessimismo ai giovani, quei pochi o quei tanti che vorranno accettare il mio invito a leggere il libro. Perché I giovani sanno, o debbono sapere che, cavalcando in una notte oscura e piena di pioggia, prima o poi troveranno “un fuoco acceso in mezzo a quel buio e a quel freddo”, e che, accanto a quel fuoco, ritroveranno, solo ed impaurito, un cavaliere perduto nel sogno di una lontana notte di tanto tempo fa (Antonio Cuono).


Michele Di Lieto

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