venerdì 25 dicembre 2015

I RACCONTI DI VENERdì - Elisabetta Mattioli

Foto di Rino Scarpa
Mahon e Jaya

Mahon girovagava nella giungla: indossava abiti colorati, teneva stretto tra le mani un piccolo bastone di legno. L’utilizzava sapientemente, gli permetteva di farsi largo in mezzo alla natura evitando anche il più piccolo ostacolo.
Ad un tratto, il canto sinistro della cornacchia squarciò l’assordante silenzio, spaventandolo a morte. Quando l’uccello gli volò accanto, lui si tolse il turbante, stringendolo al petto. Alzò lo sguardo verso l’alto, notò quel “simpatico” animale appollaiato su un ramo: teneva le ali corvine aderenti al corpo, ogni tanto muoveva la testa. Gli occhi neri del volatile spaventarono Mahon, scrisse la parola “fine” al suo disagio, lanciando il copricapo addosso al nemico.
La cornacchia se ne andò sotto gli occhi trionfanti del bambino. Notò il tramonto, capì che era giunta l’ora di tornare indietro.
Aveva fatto trecento metri; sentì un secondo rumore, proveniva dal cuore della giungla, gli fece rizzare i capelli in testa. Non ebbe la forza di muovere alcun muscolo, fissò un punto davanti a lui: l’erba si mosse ed apparve dal nulla una forma indistinta. Dopo poco tempo, comprese di cosa si trattava: era un cucciolo di tigre bianca!
L’animale avanzò con passo felpato, gli girò attorno, ed il sangue diventò ghiaccio, nelle vene del giovane indiano. Vide la “breve” vita passargli davanti agli occhi. Ripensò ai genitori, alla nonnina che gli preparava i dolci, ed infine concentrò i pensieri sull’amata sorellina, nata solo tre mesi prima.
Non l’avrebbe rivista mai più, e questo pensiero lo gettava nella disperazione. Mentre era invaso da ogni congettura, i minuti passavano, il felino continuava a camminargli intorno con la coda, provocandogli un certo solletico.
La tigre non voleva mangiarlo: si comportava come se fosse un gatto, ed iniziò a leccargli i pantaloni di seta. Al bambino passò il terrore, si chinò verso la fiera, accarezzandole il capo peloso. Lei gradì molto il gesto dell’amico, aumentò lo struscio contro le gambe di Mahon. Lui tirò fuori la “merenda” dalle tasche: non fece in tempo a porgerla all’animale che il felino l’aveva già trangugiata! Terminò il lauto pasto in tre secondi, dopo si leccò i baffi bianchi. Lui avrebbe voluto portarla al Palazzo del Maharaja, dove viveva assieme ai suoi genitori) ma forse “mamma” non sarebbe stata felice dell’idea. Però gli stringeva l’anima lasciarla da sola nella giungla: avrebbe potuto essere facile preda delle belve feroci e morire tra atroci tormenti. Doveva trovare la soluzione adatta, pensò il piccolo asiatico.
Fu raggiunto da un’idea eccellente!
Mahon percorse la strada verso casa, la tigre era dietro di lui, lo seguiva passo dopo passo. Prima di arrivare a destinazione le diede il nome di “Jaya”. La nascose nell’ala sud, in una vecchia stalla inutilizzata da anni. Dopo andò a cenare, ormai era tardi.
Non si può fare aspettare il Maharaja! Quella volta mangiò restando zitto, (stranamente) alla fine riuscì a mettere da parte del cibo per Jaya e, senza essere notato da nessuno, le portò il “lauto pasto”. Socchiuse il portone, controllò la zona circostante… non si muoveva foglia, rimise piede in camera da letto, senza farsi vedere da alcuno (guardie comprese). Era felice di aver portato a termine la missione, così dormì sonni tranquilli.
La mattina dopo rubò altre cibarie, diede da mangiare alla cucciolotta. Però…ben presto si accorse della realtà! Jaya cresceva velocemente, in poco tempo aveva perso le sembianze del cucciolo peloso, assunse un aspetto diverso. Aumentava di peso, voleva mangiare tanto cibo, ma soprattutto,non voleva i dolcetti della nonna, preferendo ben altro nutrimento. Allora Mahon cambiò strategia: entrò nelle cucine del Palazzo, eluse la sorveglianza, rubò il pesce crudo e, prima di fuggire, portò via con sé anche quello cotto. La tigre divorò tutto con gusto, e al termine del pasto si leccò i lunghi baffi bianchi.
Per un certo periodo tutto procedette nel migliore dei modi, ed il bambino si ritagliava del tempo libero per giocare con l’enorme amica.
Ma ben presto lo spazio all’interno della vecchia stalla diventò angusto, inoltre la vera natura dell’animale prese il sopravvento: voleva uscire da lì e prendere “aria”.
Al bambino si stringeva l’anima, non sopportava di vedere la cara amica “morire” di malinconia.
Una mattina, quando il sole fece capolino in cielo, tornò nella giungla assieme alla tigre, passo dopo passo notò che gli occhi blu della fiera si illuminavo. Raggiunto il “cuore pulsante della vegetazione”, lei gli diede un’ultima occhiata, allontanandosi da lui, sparendo nel verde…
Mahon ripercorse la strada verso casa, aveva l’aria sbattuta.
Messo piede in giardino, si sedette sulla solita panchina. Sentì qualche cosa toccargli la spalla, alzò gli occhi e vide il viso paffutello di una bambina.
“Come ti chiami ? Io Sono Kala.”
“Il mio nome è Mahon, sono il nipote del Maharaja.”
“Vieni a giocare”? Mi sto annoiando. Uffa...”
I due bambini si presero per mano e scacciarono finalmente la tristezza.
  
Nella scrittura di Elisabetta Mattioli trova sempre spazio l’incanto, la sorpresa, lo stupore, che non è mai fine a se stesso ma proiettato alla comprensione, al riconoscimento di un “altro da sé”. Questo è il “senso” di racconti che toccano il cuore del lettore con leggerezza e densità. Racconti ricchi di particolari simbolici significativi, illuminanti.
Elisabetta Mattioli ci regala, nell’ultima frase che chiude il racconto, un’immagine molto forte che ben sintetizza “l’insieme” dei messaggi del racconto: la diversità va accettata ma occorre fare un ulteriore passo in avanti, nel tentativo di ben comprendere il diverso da sé. L’arte può aiutarci, in questo percorso accidentato e mai definitivo? Sì, e “Mahon e Jaya” è una risposta di formidabile nitidezza.

Per contattare l’autrice:  elyamatty@gmail.com

Della stessa autrice: Il ricordo di un salice (piangente) 

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