Foto di Rino Scarpa |
Mahon e Jaya
Mahon girovagava nella giungla:
indossava abiti colorati, teneva stretto tra le mani un piccolo bastone di
legno. L’utilizzava sapientemente, gli permetteva di farsi largo in mezzo alla
natura evitando anche il più piccolo ostacolo.
Ad un tratto, il canto sinistro della
cornacchia squarciò l’assordante silenzio, spaventandolo a morte. Quando
l’uccello gli volò accanto, lui si tolse il turbante, stringendolo al petto.
Alzò lo sguardo verso l’alto, notò quel “simpatico” animale appollaiato su un
ramo: teneva le ali corvine aderenti al corpo, ogni tanto muoveva la testa. Gli
occhi neri del volatile spaventarono Mahon, scrisse la parola “fine” al suo
disagio, lanciando il copricapo addosso al nemico.
La cornacchia se ne andò sotto gli occhi
trionfanti del bambino. Notò il tramonto, capì che era giunta l’ora di tornare
indietro.
Aveva fatto trecento metri; sentì un
secondo rumore, proveniva dal cuore della giungla, gli fece rizzare i capelli
in testa. Non ebbe la forza di muovere alcun muscolo, fissò un punto davanti a
lui: l’erba si mosse ed apparve dal nulla una forma indistinta. Dopo poco
tempo, comprese di cosa si trattava: era
un cucciolo di tigre bianca!
L’animale avanzò con passo felpato, gli
girò attorno, ed il sangue diventò ghiaccio, nelle vene del giovane indiano.
Vide la “breve” vita passargli davanti agli occhi. Ripensò ai genitori, alla
nonnina che gli preparava i dolci, ed infine concentrò i pensieri sull’amata
sorellina, nata solo tre mesi prima.
Non l’avrebbe rivista mai più, e questo
pensiero lo gettava nella disperazione. Mentre era invaso da ogni congettura, i
minuti passavano, il felino continuava a camminargli intorno con la coda,
provocandogli un certo solletico.
La tigre non voleva mangiarlo: si
comportava come se fosse un gatto, ed iniziò a leccargli i pantaloni di seta.
Al bambino passò il terrore, si chinò verso la fiera, accarezzandole il capo
peloso. Lei gradì molto il gesto dell’amico, aumentò lo struscio contro le
gambe di Mahon. Lui tirò fuori la “merenda” dalle tasche: non fece in tempo a
porgerla all’animale che il felino l’aveva già trangugiata! Terminò il lauto
pasto in tre secondi, dopo si leccò i baffi bianchi. Lui avrebbe voluto portarla
al Palazzo del Maharaja, dove viveva assieme ai suoi genitori) ma forse “mamma”
non sarebbe stata felice dell’idea. Però gli stringeva l’anima lasciarla da
sola nella giungla: avrebbe potuto essere facile preda delle belve feroci e
morire tra atroci tormenti. Doveva trovare la soluzione adatta, pensò il
piccolo asiatico.
Fu raggiunto da un’idea eccellente!
Mahon percorse la strada verso casa, la
tigre era dietro di lui, lo seguiva passo dopo passo. Prima di arrivare a
destinazione le diede il nome di “Jaya”. La nascose nell’ala sud, in una
vecchia stalla inutilizzata da anni. Dopo andò a cenare, ormai era tardi.
Non si può fare aspettare il Maharaja!
Quella volta mangiò restando zitto, (stranamente) alla fine riuscì a mettere da
parte del cibo per Jaya e, senza essere notato da nessuno, le portò il “lauto
pasto”. Socchiuse il portone, controllò la zona circostante… non si muoveva
foglia, rimise piede in camera da letto, senza farsi vedere da alcuno (guardie
comprese). Era felice di aver portato a termine la missione, così dormì sonni
tranquilli.
La mattina dopo rubò altre cibarie,
diede da mangiare alla cucciolotta. Però…ben presto si accorse della realtà!
Jaya cresceva velocemente, in poco tempo aveva perso le sembianze del cucciolo
peloso, assunse un aspetto diverso. Aumentava di peso, voleva mangiare tanto
cibo, ma soprattutto,non voleva i dolcetti della nonna, preferendo ben altro
nutrimento. Allora Mahon cambiò strategia: entrò nelle cucine del Palazzo,
eluse la sorveglianza, rubò il pesce crudo e, prima di fuggire, portò via con
sé anche quello cotto. La tigre divorò tutto con gusto, e al termine del pasto
si leccò i lunghi baffi bianchi.
Per un certo periodo tutto procedette
nel migliore dei modi, ed il bambino si ritagliava del tempo libero per giocare
con l’enorme amica.
Ma ben presto lo spazio all’interno
della vecchia stalla diventò angusto, inoltre la vera natura dell’animale prese
il sopravvento: voleva uscire da lì e prendere “aria”.
Al bambino si stringeva l’anima, non
sopportava di vedere la cara amica “morire” di malinconia.
Una mattina, quando il sole fece
capolino in cielo, tornò nella giungla assieme alla tigre, passo dopo passo
notò che gli occhi blu della fiera si illuminavo. Raggiunto il “cuore pulsante
della vegetazione”, lei gli diede un’ultima occhiata, allontanandosi da lui,
sparendo nel verde…
Mahon ripercorse la strada verso casa,
aveva l’aria sbattuta.
Messo piede in giardino, si sedette
sulla solita panchina. Sentì qualche cosa toccargli la spalla, alzò gli occhi e
vide il viso paffutello di una bambina.
“Come ti chiami ? Io Sono Kala.”
“Il mio nome è Mahon, sono il nipote del
Maharaja.”
“Vieni a giocare”? Mi sto annoiando. Uffa...”
I due bambini
si presero per mano e scacciarono finalmente la tristezza.
Nella
scrittura di Elisabetta Mattioli trova sempre spazio l’incanto,
la sorpresa, lo stupore, che non è mai fine a se stesso ma proiettato alla
comprensione, al riconoscimento di un “altro da sé”. Questo è il “senso” di
racconti che toccano il cuore del lettore con leggerezza e densità. Racconti
ricchi di particolari simbolici significativi, illuminanti.
Elisabetta Mattioli ci
regala, nell’ultima frase che chiude il racconto, un’immagine molto forte che
ben sintetizza “l’insieme” dei messaggi del racconto: la diversità va accettata
ma occorre fare un ulteriore passo in avanti, nel tentativo di ben comprendere
il diverso da sé. L’arte può aiutarci, in questo percorso accidentato e mai
definitivo? Sì, e “Mahon e Jaya” è una risposta di formidabile nitidezza.
Della stessa autrice: Il
ricordo di un salice (piangente)
Scrivi racconti brevi? Questo è il concorso giusto per te. Leggi il bando del concorso
Scrivi racconti brevi? Questo è il concorso giusto per te. Leggi il bando del concorso
Nessun commento:
Posta un commento