Sofia
Autrice: Monica Fiorentino
(tratto da _lacicognadallecalzerosse)
Lettera 21. Un usignolo. Un uccello dalle lunghe ali blu, bellissimo, le piume lucenti, uno spettacolo, ed i meravigliosi occhi viola vivaci e curiosi, lei amava molto quella creatura incantevole, come del resto gli allegri pettirossi che col loro trillare riempivano l’aria di festa, le romantiche allodole così mattiniere, le simpatiche cinciallegre, i passeri solitari, e gli eleganti corvi impettiti in nero d’ordinanza; loro, la cui compagnia godeva spesso durante le sue giornate interminabili, o al far del tramonto quando di ritorno a casa, poteva finalmente gioire fra la polvere di terra bruciata e l’odore acre dei fucili, il sapore della pace, quell’intervallo di quiete fra un giorno di guerra e l’altro, e seduta a piedi nudi fuori a quel che restava della sua casa in pietra, dove bambina era cresciuta al riparo del suo roseto dai petali scarlatti, poteva gustarsi una tregua dall’orrore, dal sangue, e con i suoi libri ormai consunti sulle gambe, cercare nel proprio cuore nuovi versi, nuove fiabe, avventure mozzafiato.
Era così dolce la pace, in quei rari
attimi di silenzio, quando la notte cadeva sui fumi delle macerie, le rovine di
quelle che erano state un tempo le loro generose città, le strade del mercato
ricche di musica e vita, di colpo depredate e mute, e il buio bagnava la sua
gonna damascata lunga alle caviglie, la sua camicetta informe, le calze rosse a
tratti smagliate e i capelli che teneva legati; Sofia aspettava quelle agili
zampette a planare sulla sua mano, attendeva quei momenti, le loro storie
portate dal vento, i loro lunghi viaggi, le peripezie che avevano vissuto, ciò
che le raccontavano di aver visto nel mondo lassù in alto, oltre le nuvole,
dove non c’era quell’odore impregnante di ossa arse vive, dove non arrivava il
frastuono assordante dei mitra, quell’azionarsi a ripetizione che le feriva le
orecchie ogni volta al passaggio, non c’erano urla d’implorazione, preghiere
supplichevoli, non si vedevano sparsi al suolo crani dalle orbite vuote brulicanti
di vermi, sparute braccia tranciate dai propri corpi ancora caldi, grembi vuoti
di aborti; lassù dove le piume avevano ancora vesti pastello ed i colori
cangianti dell’arcobaleno, della pace.
Più di tutto adorava quando riempivano
del loro canto il creato, quelle melodie così soavi che venivano dai quei cuori
all’apparenza grossi un pugno, il loro cinguettio brioso, mai una nota troppo
bassa, mai un fuori tempo, il loro fischiare sereno, così simile alla musica di
quell’uomo che lei non aveva mai conosciuto, il suo papà. Si, il suo papà che
doveva aver praticato di certo la loro stessa identica musica, irripetibile,
perfetta.
Lasciata fuori la battaglia, dietro i
vetri della sua finestra, rannicchiatasi nel suo letto dalle coperte
disseminate di innumerevoli buchi, la giovane chiudendo gli occhi segnò un
nuovo haiku in blu Nudo/ il cielo sopra la guerra/ a gocciolare,
scrivendolo lieve con l’anima imbevuta di sogni, di notte quella sua camera
diveniva una cupola stellata d’amore, non esistevano più soprusi, violenza,
atrocità alcuna.
E abbandonandosi al sonno lentamente,
beata, nel suo torpore cominciò come ogni volta, di nuovo ancora, a scorgere di
lontano quella schiena nuda d’uomo, il materializzarsi di quella pelle chiara,
quelle lunghe ali dalle piume di rondine incassate nella carne, fra le scapole,
ad aprirsi, fra lo scorrere dell’acqua a dilavarle, avvolto da una coltre di
foschia, lui, che veniva a tenerle la mano, stringendogliela salda, angelo
bellissimo a planare da quel cielo sopra la guerra …
Lo sguardo incantato di Monica
Fiorentino continua ad offrirci un punto di vista potente,
potentissimo, sulla guerra e i suoi orrori, facendoci notare le discrepanze, le
profonde fratture, tra chi è votato alla pace e chi invece asseconda gli impeti
distruttivi.
Gli animali, in particolare gli uccelli,
sono i suoi interlocutori preferiti in questo viaggio denso, complesso nelle
sue sfumature.
I racconti di Monica Fiorentino vanno riletti più volte, per coglierne i vari
messaggi, perché si sviluppano attraverso molteplici strutture narrative,
ognuna portatrice di una nota, di un pensiero. C’è acutezza nello sguardo ma al
tempo stesso voglia di “sollevarsi” (gli uccelli, le loro ali…) dai dolori che
l’odio devastante porta fatalmente con sé.
L’arte è voce determinante, nel farci
riflettere sulla necessità di questo “sollevarsi”; la voce di questa grande
scrittrice lo è in modo particolare.
Della stessa autrice: Hermes
Per contattare l’autrice: angelo.dicarta@libero.it
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