domenica 27 gennaio 2013

Rosario Tedesco per "Libriamoci"





Ecco un estratto del testo di Rosario Tedesco (rosariotedesco@hotmail.it) letto durante l'appuntamento di "Libriamoci" di gennaio (qui trovate le foto). Grazie a Rosario e a tutti gli intervenuti che hanno dato vita a un altro incontro ricco di interventi e stimoli di riflessione.
"Libriamoci" di febbraio, a cura di Anna Giordano e Giuseppe Salzano, si terrà domenica 17 (sempre alle ore 17,00 e sempre presso il Centro d'Arte "Keramos" ad Agropoli) e sarà dedicato all'affascinante tema della spiritualità: come riferimento letterario è stato scelto "Siddharta" di Hermann Hesse e sarà ospite il biblista padre Ernesto della Corte.

I.

   La gente è per lo più infelice, lo vedo, lo rilevo, lo constato tutti i giorni.
   Nonostante talvolta crede di non esserlo.
   Perché pur nei momenti nei quali non ha dei motivi – sempre apparenti – per non essere infelice, una persona è tuttavia costretta ad essere gentile con il prossimo, vuoi perché è costretta a farlo per lavoro o semplicemente per ragioni di buona educazione, vuoi perché lo fa spinta dal (tutt’altro che) semplice desiderio d’essere di compagnia, di conforto o di sostegno a qualcuno – senza chiedersi se costui abbia effettivamente bisogno di tutto ciò – nella certezza che di esser poi ricambiata in egual modo – senza chiedersi se ella abbia effettivamente bisogno di tutto ciò.
   Un discorso perfettamente analogo va fatto anche nel caso in cui, viceversa, si asseconda l’istinto-volere-piacere(sadico) non solo di non essere gentile nei confronti del prossimo, ma di essergli palesemente, esplicitamente e dichiaratamente ostili, come è il caso in cui si nutre del rancore verso qualcuno o, peggio ancora, quando si ha l’intenzione di compiere una vendetta nei confronti di costui.
   Mi spiego.
   C’è chi si preoccupa di essere cortese, per dovere, per interesse o per amore.
   C’è chi si preoccupa di essere scortese, per piacere, per disinteresse o per odio.
   C’è chi si preoccupa solo di essere Se Stesso.
   Il che equivale a dire che non si preoccupa né di essere cortese né di essere scortese.
   Direi, che non si preoccupa di Essere
   Anzi, direi che non si preoccupa, e basta.
   È ciò a cui idealmente tendo.
   È ciò a cui ognuno di noi dovrebbe tendere.
   È ciò a cui l’Umanità intera dovrebbe tendere.
   Ed è l’unica condizione possibile perché la parola Pace possa avere un senso.
   Non c’è Pace fintanto ci si preoccupa di amare o di odiare qualcuno al di là di Se Stessi.
   Non vi può essere Pace fintanto ci si preoccupa di qualsiasi cosa nella vita.
   È in Pace solo l’Uomo che non si preoccupa di niente e di nessuno.
   Nemmeno di Se Stesso.
   Per essere più che mai Se Stesso.
   Essere in Pace con Se Stessi equivale ad essere in Pace con chiunque altro.
   Essere in Pace con Se Stessi equivale ad essere in pace con il Mondo.
   Ergo.
   Ignora il prossimo tuo come te stesso.
   Ciò ti farà conoscere Dio.
   Il solo Dio che ti è possibile riconoscere come tale in questa vita.
   Te Stesso, libero dal fardello di Dover Essere.
   Te Stesso, finalmente sgombro dell’Essere.
   Te Stesso, libero e liberato dalla libertà - soprattutto dalla libertà.
   Nulla, paradossalmente, è più vincolante della libertà.
   In quanto la libertà, proprio in quanto tale, non libera affatto dal Dover Essere, ma costringe chi la impugna ad attenersi ad essa nella maniera nella quale, per definizione, ci si deve ad essa attenere, ossia, preoccupandosi in una maniera ancora più assidua - nell’esercitare la propria libertà - di non invadere quella degli altri. E non se ne esce…
   A patto si riesca a superare la preoccupazione di esistere per qualcuno.
   Il che spesso equivale a dire di esistere per qualcuno.
   Anche, addirittura, per Se Stessi.

Essere morti è una fatica dura, ma dura davvero!
                                                                                                                                 Rainer Maria Rilke



   II.

   E ora riporto illustrandolo nei dettagli l’episodio che ha determinato in me questa presa di coscienza in modo chiaro, deciso e definitivo.
   Avevo di fronte a me, tra tutte, la persona che più riesce ad irritarmi con la sua sola semplice presenza per una ragione che ora specificherò.
   Lo guardavo e avevo la netta consapevolezza che avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa ed egli non avrebbe cambiato l’opinione che ha da sempre su di me.
   Mi avrebbe sempre continuato a vedere come uno che si prende troppo sul serio.
   O peggio, come uno che si prende sul serio senza poterselo permettere.
   Ignorava che il più grande vantaggio che si ha nell’essere uomini è quello che chiunque - qualsiasi sia il suo grado di intelligenza, il suo status sociale e la sua cultura - può permettersi di poter decidere in qualsiasi momento della propria vita di chiudersi agli altri e di non uscire più da e dal proprio mondo, liberandosi dal pesante fardello rappresentato dal dover essere per gli altri oltre che per sé, ossia di render conto agli altri di quel che si dice e di quel che non si dice, di quel che si fa e di quel che non si fa, e nel modo in cui si dice quel che si dice e si fa quel che si fa.
   E proprio grazie a questo superarli fino quasi a non vederli più.
   E sfido chiunque a non prendersi sul serio nel momento in cui prende totale possesso di sé e si emancipa totalmente dalla preoccupazione di cosa possano pensare gli altri del suo comportamento.

Non vi è nulla di meno serio quanto non prendersi mai sul serio

   Dal momento che se non avessimo gli altri di fronte a noi perennemente eretti – ed eletti da noi medesimi – a giudici spietati delle nostre azioni non ci verrebbe mai in mente di non prenderci sul serio.
 “Nui simmo seri, appartenimmo a’morte” sentenziava Totò nel finale de A Livella.
   Facendogli coro e ricorrendo  allo stesso tono, io ribadisco…

Io sono serio, anzi, serissimo: appartengo a Me Stesso…   …e alla Mia Morte.

   A volte ripensando a tutta la mia vita essa mi appare null’altro che come un lungo apprendistato alla scuola che mi ha indotto al convincimento che la sola patria per uno come me è la solitudine.
   Naturalmente, fino ad oggi rassegnarmi a ciò non è stato facile e mai, credo, lo sarà.
   È questa la ragione per la quale puntualmente eludo questa verità tornando a credere in tutto ciò a cui mi ero ripromesso mai più avrei creduto in un momento in cui ero sconfortato quanto lucidissimo.
   Ma questa illusione se ne via, presto o tardi, così come è venuta.
   E ciò non mi sorprende affatto più come mi sorprendeva un tempo.
   Anzi, direi che non smetto mai di attenderla.
   Anche nel momento in cui l’illusione suddetta mi procura l’ulteriore illusione della felicità.
   Pur ritrovandomi al settimo cielo, attendo la caduta, che immancabilmente arriva.
   E per l’ennesima volta imparo quello che già so.
   Si è soli.
   Ma si può essere liberi.
   E si può essere liberi solo se si è soli.

Nessun commento:

Posta un commento