mercoledì 29 febbraio 2012

Visita guidata gratuita


Il Comune di Eboli celebra lo sbarco degli alleati del 1943

Eboli ricorda l'Operazione Avalanche
Presso il Complesso Monumentale Sant’Antonio
Località Sant’Antonio – Eboli
Sabato, 10 marzo ore 17,30
Visita guidata proposta da “Gli Occhi di Argo” su suggerimento del socio Pasquale Giuliani Mazzei
Ingresso gratuito - prenotazione obbligatoria
tel: 3292037317

Ut in do

Le note musicali così come le conosciamo oggi risalgono al XII secolo ad un'intuizione di Guido d'Arezzo, famoso teorico della musica.
In effetti, le note corrispondono alle sillabe iniziali dei primi sei versetti di un ino a San Giovanni Battista: Battista,“UT queant laxis / REsonare
fibris / MIra gestorum / FAmuli tuorum / SOLve polluti / LAbii
reatum, Sancte Iohannes” che, tradotto, significa "affinché i tuoi servi possano cantare con voci libere le meraviglie delle tue azioni, cancella il peccato, o santo Giovanni, dalle loro labbra indegne”.
Poiché ogni verso corrispondeva a una diversa tonalità, Guido d'Arezzo decise di utilizzare la parte iniziale di ciascuno di essi per definire le note musicali.
Nel XVI secolo la settima nota riceve il suo nome definitivo (si, dalle iniziali di Sancte Iohannes) e nel XVII secolo in Italia la nota ut viene sostituita con il nome attuale do, da una proposta del musicologo Giovanni Battista Doni: formalmente la sillaba venne considerata difficile da pronunciare e sostituita da quella iniziale di Dominus, il Signore, ma probabilmente non ci si sbaglia a pensare che il cognome del musicologo abbia giocato una parte importante nella scelta.

L'immagine parla


A questo link trovate il bando dell'interessante concorso organizzato dall'associazione culturale "Il Maestrale" di Palazzolo sull'Oglio (Brescia).

lunedì 27 febbraio 2012

Streghe


Pasquale Fernando Giuliani Mazzei

La Janara 
nella Lucania Minor/Cilento Antico

Oreste inseguito dalle Erinni
(Il rimorso di Oreste, opera di William-Adolphe Bouguereau, 1862)
Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle (Voltaire)



I. Le streghe






La strega è una donna ritenuta dedita all'esercizio della stregoneria, ovvero, secondo vasta credenza popolare tradizionale a molte culture, è una donna di cui si ritiene che sia dotata di poteri occulti.
Il suo omologo maschile è stregone.
La figura della strega ha, però, radici che precedono il Cristianesimo ed è presente in quasi tutte le culture come figura a metà strada tra lo sciamano e chi, dotato di poteri occulti, possa utilizzarli per nuocere alla comunità, soprattutto agricola.
È stata avanzata l'ipotesi che la stregoneria sia l'interpretazione fantastica dell'intossicazione da Ergot/parassita allucinogeno che contaminava il pane di segale cornuta
Le streghe, si distinguono in due categorie, streghe nere e streghe bianche.
Secondo la tradizione, le prime hanno più probabilità ad avere contatti con il male, mentre alle seconde, vengono attribuiti dei poteri di guarigione.
Il termine deriverebbe dal greco stryx, strygòs e sta per strige/nottola, barbagianni, uccello notturno, ma col passare del tempo assunse il più ampio significato di esperta di magia e incantesimi.
Nel latino medioevale il termine utilizzato era lamia, nell'Italia attuale, invece, il sostantivo varia molto a seconda della zona:

      Masca o Maggia (Piemonte)
Stria o Bàsura (Liguria))
Borde (Toscana)
Strìa, Maggia (Lombardia, Emilia,  Trentino, Friuli-Venezia Giulia)
Cogas, stria, brúscias o maghiargia (Sardegna)
Strìa/Striga/Strigo (Veneto)
Janara (Irpinia)
Mavara (Sicilia)
Magara (Calabria e Basilicata)
Masciáre o chivàrze (Taranto e provincia)
Macera (Salento)
Stiara Grecia Salentina
Stroll'ca (Umbria)





II. Origini storiche della janara

Dalla letteratura, la janara risulta una figura arcaica che, nella cultura classica era già confezionata, con caratteristiche perfezionate nel tempo ed in un repertorio ben consolidato, in base agli scritti di autori clericali dall’Alto Medioevo in poi, che costruirono un lungo processo per  selezionarne gli aspetti discriminanti attraverso racconti popolari; superstizioni locali; mitologia classica, ebraica, nordica; inchieste giudiziarie, verbali di processi, fino alla codificazione, sistematica ed accreditata dall’autorevolezza degli scrittori, della figura della strega secondo una tipologia precisa


III. Origini trascendentali della janara

La janara, è una figura della tradizione popolare e, come tutti gli esseri magici, ha carattere ambivalente, positivo e negativo, infatti, cura le malattie attraverso la manipolazione delle erbe, ma sa anche scatenare le tempeste.
Nella coscienza popolare non si associa la janara al diavolo, perché la janara non ha valenze religiose, ma solo magiche, come l’Uria, la Manalonga o le Fate.
La janara, perciò, appartiene ad un universo estraneo a quello umano e per questo temibile ed incomprensibile come tutto ciò che è diverso.
È capace di nuocere agli umani, ma non ha i legami con il diavolo che, invece, le attribuiscono gli uomini di chiesa, i quali ne fecero un’eretica, come i seguaci di altre religioni.


IV. Ipotesi etimologiche sul termine janara

Janara, è il termine comune nel Cilento Antico per indicare la strega, e lo si trova anche nella variante ghianara.
1) Una tesi etimologia per il termine popolare janara, connette questo nomen con il termine latino janua/porta, perchè la janara insidia le porte, per introdursi nelle case.
2) Un’atra tesi etimologica per il termine popolare janara, connette la semiconsonante iniziale /j/ quale evoluzione naturale del nesso latino /di/, come nel caso di diurnum/juorno.
Con quest’altra ipotesi etimologica, il termine non viene da Janua/Porta, in cui la /J/ evolverebbe in /G/, per esempio Januarius/Gennaro, ma da dianaria-ae o dianiana-ae, aggettivo derivato da Diana, equivalente a Seguace di Diana.
3) Ma, c’è da discutere sul passaggio fonetico del suono sanscrito e preindoeropeo basso-palatale-dentale TH, nella fonetica anatolico-greco-latina
a) in D, per esempio la parola theos diventa szeos/deos,
oppure
b) in S, per esempio la parola thesos diventa sexus/sesso.
Diana, è un’antichissima divinità italica, dea federale dei Sanniti  e protettrice della plebs romana, è chiamata da Cicerone dea della caccia, della luna e degli incantesimi notturni (Cic. De nat. deor., 2, 68, sgg.),


V. La natura delle janare

Per la loro natura incorporea, le janare, entravano nelle case da sotto le porte, come un soffio di vento, oppure dalle finestre come un lieve spiffero.
Per evitare che esse potessero entrare, dietro alle porte e alle finestre venivano appesi sacchetti di sale o scope.
La tradizione vuole che la janara, prima di entrare in casa, dovesse contare tutti gli acini di sale o tutti i fili o le fibre che formano la scopa ma, nel frattempo, sopraggiungeva l'alba e la janara era costretta a ritornare nella propria abitazione.
Una variazione della leggenda, racconta che la ignara si sedesse a cavallo della scopa per contarne meglio le saggine e che, giunta l’alba, volasse via a cavalcioni della ramazza.
Un’altra variante della janara, non è la Epifania, ma la figura della Befana che, nella sua origine orfica era la identificazione delle TreParche, assorbita del tutto dal cristianesimo altomedioevale gregoriano e che, nel suo sacco non portava regali ma, carbone, simbolo della catarsi popolare che interveniva dopo i baccanali del Sol Invictus/Natale, ed apriva il periodo della Candelora.
Questa, proseguiva fino al mercoledì delle ceneri, giorno dal quale cominciava la Pentecoste che terminava a Pasqua.       


VI. La janara a Cicerale

Anche a Cicerale, sulle persone nate la notte di Natale si dice che,
1) le donne fossero Janare, e trasformassero le loro sembianze in altre, umane, animali, aeree o luminose
e
2) gli uomini fossero lupi mannari, dotati di una codina, e si trasformassero in un animale selvatico, peloso, cattivo/divoratore/lupus.

Recita un proverbio cilentano:

Chi nasci la notte ‘re Natale nasci maleritto: si è màsculo, addivènta lupo mannaro; si è femmena, addiventa janara pe' ttutta la vita.

A Cicerale, qualche persona anziana racconta di una bambina, sua coetanea,  che aveva una codina come quella di un maialino, con un ciuffetto di peli sulla punta, oppure, di un uomo che aveva una piccola coda.
Un giorno due bambine, uscite dalla scuola elementare, tornavano a casa ma, incuriosite da un vecchio del paese sul quale si dicevano cose strane, lo seguirono di nascosto in campagna e qui, l’uomo si chinò su sé stesso, si coprì col mantello, e si trasformò in un animale peloso, con le zanne, che camminava a quattro zampe, come nù porco selvatico/cinghiale o un lupo e le bambine scapparono via.


VII. Un racconto sulla janara

C’era una volta, una giovane coppia con un bambino di circa un anno, che la notte dormiva nella vocola/culla accanto al talamo/letto, antico ed alto, dei suoi giovani genitori.
Un giorno, la vecchia jenara del paese, chiese delle foglie di  petrosino/prezzemolo alla nonna materna del bambino, perché il prezzemolo va bene in tutte le minestre e le pozioni.
Però, la poveretta le rispose di non averne, e la jenara le disse di guardarsi bene il suo bel nipotino, perché poteva sempre succedergli qualcosa di brutto e, così, gli gettò il malocchio/lo maledisse.
La nonna lo capì, tornò a casa e, mise una scopa di saggina/erica fuori la porta di casa per scacciare la jenara in qualsiasi forma si fosse presentata, chiuse la finestra e la porta così che la jenara non potesse entrare sotto forma di vento e fuggire come scintille, poi, andò nell’orto da sua figlia, le raccontò che non aveva potuto dare il prezzemolo alla jenara, e la avvertì che la vecchia aveva ammalocchiato il nipotino.
Quella sera, come tutte le sere, dopo un giorno, come tutti i giorni, trascorso a lavorare nell’orto e nei campi, i due giovani sposi, col bambino in braccio alla madre, tornarono a dormire nella loro casa.
Questa, era formata da una sola stanza, dove dormivano, cucinavano sul fuoco acceso nel camino, avevano lo ziro dell’olio, la damigiana del vino, lo ziro, il bacile e la brocca dell’acqua, il tavolo e due sedie, i loro panni, e dove, anche quella sera, cenarono, dissero le preghiere e si coricarono.
Ogni notte, il bambino, come ogni notte tutti i bambini piccoli, si svegliava, mugolava e piangeva perché aveva fame.
Quella notte, però, rimaneva in silenzio e la madre, preoccupata, nel dormiveglia stese il braccio per toccare il figlioletto nella culla ma, non lo trovò, e si svegliò di soprassalto.   
Impaurita dal fatto del prezzemolo che le aveva raccontato la madre, scosse, chiamò e svegliò il marito, e gli disse che la jenara, sotto forma di vento, aveva rapito il loro bambino in una scia di scintille, per sacrificarlo in un suo rito magico.
Subito scesero dal letto e, nel buio spezzato solo dal riverbero della luna e delle stelle nel cielo notturno, il marito si affacciò dalla porta fuori casa, per vedere se, lì intorno, si fosse appollaiata una strix/nottola in cui si era trasformata la jenara, venuta ad osservare lo spavento dei due giovani sposi, ma non vide nessuna civetta.
Poi, accese un lumino ad olio per guardare bene nella culla, e cercare il figlioletto nella stanza piena di povere cose.
Marito e moglie, dopo essersi guardati intorno in quei pochi metri quadri, si chinarono in ginocchio sul pavimento di terra battuta, guardarono sotto il letto e non trovarono il bambino.
La madre, recitando delle preghiere per eliminare il sortilegio, gettò la chiave di casa per terra, fuori l’uscio, perché era di ferro ed aveva l’occhio, che attira le forze soprannaturali, poi, prese un paio di forbici e fece lo stesso, per vedere la ‘nforcatura/l’apertura, stretta o larga, delle lame e capire se il maleficio era piccolo o grande e, in ginocchio col marito, rivolti alla chiave ed alle forbici, recitò con lui anche il mea culpa, battendosi il petto e giurando che non avrebbero mai mancato di rispetto alla jenara.
Ma, nel frattempo sorse l’alba e, mentre si pentivano ancora di colpe mai commesse e giuravano per l’avvenire, sentirono il mugolìo ed il pianto del bambino, che era apparso sotto il letto. 
La madre lo prese, il bambino si svegliò, gli diede un poco di latte, e lo rimise nella culla, dove dormì sereno.
Quella stessa sera, al vespro, la giovane sposa, prese una piantina di prezzemolo nel suo orto e, con sua madre, la portò alla jenara, in segno di un’amicizia riconsolidata.     

"Libriamoci" e la stregoneria


Coinvolgente e ricco di spunti di riflessione, l’appuntamento mensile “Libriamoci” di ieri pomeriggio presso il Centro d’Arte “Keramos” ad Agropoli. Un grazie di cuore, per la squisita ospitalità, va ad Antonio e Andrea Guida.
Il dottor Pasquale Giulani Mazzei, la professoressa Lucia Capo e il dottor Antonio Capano hanno affrontato l’argomento della stregoneria da vari punti di vista, con particolare riferimento ai legami culturali con la civiltà contadina.
Molto appassionante l’interpretazione di Maria Cristina Orrico e Paola Tozzi, che hanno recitato e cantato su testo di Milena Esposito: “Strega” è stata una performance intensa, toccante. Per la collaborazione tecnica, si ringrazia Rosario Tedesco.
Tutti i posti prenotati erano occupati, a testimonianza del grande interesse dei soci, degli amici e dei simpatizzanti de “Gli Occhi di Argo”, che desideriamo ringraziare.

Ecco le foto dell’evento:














LUNEDì POESIA - ANTONIO CORTAZZO


No Lei Ama...   autore: Antonio Cortazzo



No lei ama l'estate, 
sfrontata amante
fontana di giovinezza
irriga i suoi umori.
No lei ama tesori di pirata
il suo corpo violentato di gioielli
collo di smeraldo evocano baci di passanti,
le sue mani scivolano su scaglie di serpente.
Lei vive su strade estive
calza suole di libertà
pelle smaltata d'oro
capezzoli di madre perla.
No lei ama volteggiare su strade estive
vive di espedienti
sogni fatti di scotch e bourbon,
bambina provocatrice
portatrice di nettare fecondo.
Gioca con la gente del posto
lucciola della notte
donatrice di miele
taverna lussuriosa
nella notte tempestosa.
Ha una casa sull'oceano
con un letto di paglia,
si mormora in giro che lei ama l'estate...

Per contattare l’autore: ibra-cor@hotmail.it

Prorompenti e forti, le immagini di Antonio Cortazzo, a descrivere una vita insofferente agli schemi comuni. Le pennellate di colore acceso si susseguono con efficace originalità, ognuna esauriente nel descrivere un determinato aspetto e al tempo stesso ben integrata nell’insieme del componimento.
Ad una prima lettura quel “No lei ama” potrebbe apparire come stridente, nel ritmo complessivo, e invece si rivela molto funzionale al tono “sommesso” che l’autore vuole suggerire, suggellato dal verso finale.