Roma Termini
Veronica si era comportata al contrario
(dal punto di vista lavorativo): era nata in un piccolo paese situato nella
pianura padana, aveva studiato marketing e frequentato un master a Londra. Una
volta tornata in Italia, era andata a lavorare in una Multinazionale impegnata
nel settore ambientale, con sede a Milano. Però, alla prima occasione, aveva
richiesto il trasferimento nella Capitale. Tornava a casa sua per le feste
comandate e qualche fine settimana. Era solita andare a trovare i genitori ogni
quarantacinque giorni, presentandosi con un numero imprecisato di regali. Le
piaceva fare shopping, spendeva parecchi euro e come era solita ripetere “Le
commesse dei negozi in Via Condotti mi amano da impazzire.”
Veronica amava poco la città che l’aveva
vista nascere, per vari motivi: aveva perso tutti gli amici, era sola come un
cane, trascorreva i week end in casa a leggere un libro. La vita sociale era
ridotta al minimo, di conseguenza non fu un sacrificio andare a vivere nella
“città eterna”, che amò terribilmente al primo sguardo. All’inizio affittò un
minuscolo appartamento in un residence, ma ben presto comprese che doveva avere
una casa decente. Si recò in un’agenzia immobiliare e in tre mesi trovò il
“nido dei suoi sogni”. Era un grazioso loft, ristrutturato dal vecchio
proprietario e situato in un palazzo del Settecento.
Adorò subito quelle “antiche mura”,
l’arredò in breve tempo con mobili moderni, ma acquistò anche un comò
ottocentesco, che mise nell’ingresso.
Sul ripiano superiore appoggiò la foto
dell’amata nonna, morta quando lei aveva diciannove anni. Lei non aveva mai
gradito le “diavolerie moderne”: se l’avesse messa sopra al tavolino in vetro e
ferro, gliela avrebbe fatta pagare con un spiacevole scherzo, proveniente
dall’aldilà.
Veronica aveva voluto tanto bene
all’anziana donna, era stata una seconda mamma e quando morì, per lei fu un
colpo durissimo da masticare. All’epoca, il trasferimento a Roma rappresentò
una boccata di aria fresca. In realtà non aveva amici, lavorava tantissimo e
frequentava poco i locali notturni, ma con il passare del tempo scoprì un
metodo infallibile per “uscire”. Era una serata “obbligatoria” e la rendeva
felice: fece un abbonamento a teatro, gli spettacoli iniziavano ad ottobre e
terminavano a maggio.
Per lei era un periodo triste, perché da
un momento all’altro cessavano le uscite, in alcune occasioni ne approfittava e
ripartiva verso Milano. Quando tornava da babbo e mamma, portava molti regali.
La merce variava parecchio: capi d’abbigliamento, piccoli oggetti d’arredo,
utensili per la casa, accessori vari e gioielli. I commercianti l’apprezzavano,
ma lei sapeva che era una recita, l’accoglievano con affetto, perché spendeva
anche mille euro in un colpo solo. Non era una sprecona, ma quegli oggetti le
donavano una “falsa compagnia”.
Oppure, nei fine settimana si
rinchiudeva nel suo delizioso loft, scivolava sotto le coperte e leggeva un
buon libro. Veronica era amata dai librai, perché ne acquistava almeno tre in
una settimana. Non aveva un genere definito, “divorava” letteralmente la carta,
era una consumatrice di libri, per lei era impossibile poterne fare a meno.
Purtroppo non aveva instaurato un rapporto amichevole con le colleghe, pativa
una solitudine profonda, ma non l’avrebbe mai ammesso. In azienda era un capo,
comandava quaranta donne, alcune le aveva apostrofate con il termine di
“sgallettate”, le definiva troppo sciocche e superficiali per considerarle
delle papabili amiche, così trascorreva il tempo libero a leggere tomi oppure
andava a vedere qualche mostra, nella città eterna non mancavano certamente le
occasioni.
Infine (si fa per dire), l’ultima
passione era rappresentata dai viaggi. La nostra protagonista si vantava poco,
ma aveva visto mezzo mondo: ogni tanto ripeteva alla sua stessa anima, che se
un giorno fosse mai partita per il viaggio di nozze, sarebbe andata in
Polinesia.
La vita di Veronica andò avanti con
questa “piacevole” quotidianità, fino al momento in cui ricevette una
telefonata: era sua madre e l’esortava a tornare a casa per il primo week end
di maggio, perché una delle cugine di quinto grado convolava a nozze.
All’inizio nemmeno ci voleva andare, ma alla fine dovette cedere: l’idea che i
parenti sottolineassero il suo stato di “donna zitella” lo sopportava malamente,
ma le scocciava dare un dispiacere alla madre, così tre giorni prima
dell’evento si recò nel suo negozio preferito e acquistò uno splendido abito.
Il giorno della partenza si presentò
alla “Stazione Termini” con indosso la “tenuta da viaggio” (una tuta blu
scuro). Attese la Frecciarossa appoggiata contro una colonna, teneva lo sguardo
perso nel vuoto ed era molto triste. Mentre aspettava, fu urtata da un “corpo
estraneo”.
Veronica si voltò di scatto, fissò gli occhi cerulei dell’uomo e “saltò” il
matrimonio della cugina, senza nemmeno avvertire la diretta interessata.
Elisabetta Mattioli tratta con leggerezza e delicatezza, in “Roma Termini”, il tema della
solitudine ai nostri tempi: anni di “iper-tecnologie”che ci avvicinano ad
un numero potenzialmente infinito di
nuovi contatti, ma non occorre mai dimenticare che sii tratta di una conoscenza
inevitabilmente superficiale, in quanto monca di aspetti fondamentali che solo con
il “viso a viso” è possibile condividere.
Veronica è tratteggiata
in modo molto realistico e perciò
efficace. Non è facile costruire in un racconto breve un ritratto credibile di
una persona complessa, dalla personalità ricca di sfumature, ma Elisabetta Mattioli c’è riuscita con
sicurezza e bravura, offrendoci l’ennesimo racconto tutto da godere.
Nessun commento:
Posta un commento