Aysha
Nel febbraio del 2008 mi recai con due
amiche nell’isola di Zanzibar, che si trova di fronte alla costa orientale
della Tanzania, pochi gradi a sud dell’equatore. La prima visita in questo
piccolo angolo di paradiso risaliva al dicembre di venticinque anni prima,
all’epoca ero una bambina e partii assieme ai miei zii. Però nel febbraio 2008
tornò in me una voglia irrefrenabile di tornarci, così presi armi, bagagli e,
assieme a due amiche con i rispettivi figli, decollammo alla volta dell’isola
delle spezie. Avevamo il volo per le ventitrè, ma all’ultimo momento sorsero
dei problemi tecnici e decollammo con un paio d’ore di ritardo. L’atterraggio
fu abbastanza morbido, dopo aver sbrigato le formalità doganali, andammo a
ritirare le valigie. Mi accorsi subito che, in venticinque anni, la situazione
era rimasta tale e quale. Vidi i bagagli stesi sopra ad una panca di legno
d’ebano, i locali leggevano a voce alta i nomi dei viaggiatori, scritti sui
cartellini attaccati alle maniglie. Purtroppo l’ormone somatotropo su di me non
ha avuto risultati, decine di mani spingevano nella speranza di afferrare il
mega trolley della situazione! Così una delle mie amiche si mise in “pole
position”, riuscii a prendere subito la valigia.
I ragazzi dell’animazione erano pronti
con le palette in mano, fuori dal piccolo aeroporto, ed una volta “confessati”
i nostri nomi, salimmo sul pulmino, con direzione il villaggio turistico.
Non facemmo in tempo a compilare il
voucher dell’albergo e a disfare le valigie, che avevamo già indossato il
bikini. In men che non si dica, i piedi si trovavano già in spiaggia,
sprofondati nella fine sabbia bianca di Kiwengwa.
Stefy (la ragazza che si era messa in
pole position) pensò di crogiolarsi al sole, mentre io e Anto ci lanciammo in
mare a nuotare. Restammo a “mollo” per un’ora; quando uscimmo dall’abbraccio
dell’Oceano Indiano, fummo “invase” dal caloroso benvenuto dei ragazzi locali,
che ci proposero una visita della città, gite in mare a prezzi davvero
vantaggiosi rispetto al tour operator.
Io e Anto ci guardammo negli occhi,
senza dire nulla alla “lucertola umana” (Stefy), prenotammo una sorta di
pacchetto compresa la cena a base di crostacei, che sarebbe stata organizzata
dai “beach boys” dopo cinque giorni. Stefy
non fu entusiasta della nostra iniziativa, però alla fine accettò.
Quella sera ci vestimmo in modo sportivo:
t-shirt, short chiari lunghi fino al ginocchio e scarpe basse. L’appuntamento
fu fissato per le venti e trenta fuori dal villaggio, i “beach boys” furono
puntualissimi.
Mi accorsi di un piccolo fattore… la
direzione presa era opposta rispetto a quando andammo assieme a Stone Town due
giorni prima, mi fece capire che non avremmo mangiato in città, ma da un’altra
parte, però non dissi nulla alle mie amiche, per timore di spaventarle. Dopo venti
minuti di tragitto raggiungemmo una casa in muratura. Scendemmo dal pullman ed
i ragazzi ci accompagnarono a cena. Mangiammo all’aperto sotto la luce bianca
della luna, il tavolo era illuminato da qualche candela. Il cibo fu squisito e
l’aragosta, i crostacei, l’insalata di mare si scioglievano in bocca. Al posto
del solito dolce ci servirono dell’ananas e le dolci banane rosse (ci sono in
Tanzania e Kenya).
In quella “normalità” notai una piccola
stranezza… a parte noi c’era un continuo via vai di persone, ci passavano
davanti, dirigendosi dietro il caseggiato.
Di natura sono curiosa, non resistetti
alla tentazione e seguii uno di quegli uomini. Scostò una tenda ed entrò
all’interno della struttura, uscendone poco tempo dopo, una donna lo salutò con
la mano. Non si accorse di me, quando fu lontano decisi di parlare con lei.
Aysha mi accolse con un bel sorriso, rimanemmo sulla soglia di casa, senza nessun
problema mi disse che “vendeva” il suo corpo al migliore offerente. Aveva tre
figli, manco sapeva chi erano i padri, in ogni caso doveva pur mantenerli e di
abbandonarli non ci pensava minimamente. La sua clientela era parecchio
variegata, passando dai nativi dell’isola ad altri africani ed infine agli
stessi europei. Mi disse che annoverava anche alcuni italiani, di solito erano
gentili e li aveva incontrati più di una volta, perché amavano tornare da lei.
Aysha parlava con una tranquillità incredibile, mi sembrava serena ed il suo
atteggiamento mi disarmò.
Lei pensava fosse normale comportarsi in
quel modo, non si sentiva sfruttata, né tanto meno in colpa, oppure “sporca”. Doveva mantenere i suoi bambini e
prostituirsi era un lavoro come un altro. Il colloquio durò una ventina di
minuti, decisi di non farle più perdere tempo prezioso perché il lavoro
incombeva ed i clienti la stavano aspettando. Salutai Aysha e raggiunsi le mie
amiche che erano preoccupate per me. Tornai al villaggio consapevole di avere
abbattuto un’altra barriera mentale. Dopo il famoso febbraio 2008, rimisi
nuovamente piede a Zanzibar, è un luogo che amo (non pensate male eh!).
Non
dimenticherò mai Aysha e quello che ho imparato.
Ogni riferimento ai nomi è puramente casuale!
Chi è Aysha? Una donna sfruttata, una
donna libera? Il racconto di Elisabetta
Mattioli ci pone di fronte a “un nuovo modo” di vedere le cose, ci spiazza,
ci sollecita a rivedere idee e concetti che, forse, sono pre-concetti. Il
tutto, sempre nello stile “leggero” dell’autrice, che ci invita, con la sua
scrittura, a “guardare oltre”.
Elisabetta
Mattioli coglie l’essenza delle cose attraverso
piccoli particolari che mette in evidenza, porgendoli al lettore con una
scrittura garbata, attenta, lucida e consapevole di una profonda necessità: l’arte
può e deve riscrivere, in un certo senso, il mondo della quotidianità. È un
compito per l’artista, un compito che non conosce scadenze.
Della stessa autrice: La
donna d’acciaio
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