Ecco la nuova recensione a “La casa sul poggio”
di Michele Di Lieto, edizioni L'ArgoLibro, curata dal dottor Antonio Cuono.
Segue una nota dell’autore, ad ulteriore
arricchimento dei testi che stanno fiorendo intorno a questo romanzo che
continua a far palare di sé.
Qui trovate la pagina dedicata dalla casa
editrice, con tutti i contatti e le info per l’acquisto.
Da Napoli
al Cilento, tra Napoli e il Cilento, con frammenti di sogni d’America e di
Francia, si svolge l’avventura esistenziale del protagonisti-antagonisti
dell’opera letteraria del Giudice Di Lieto: Gesualdo, Tarsio, Carlo, Antonino.
Risalgono
al presente i tratti diversi di uno stesso volto che, alla fine delle pagine,
scopriamo essere il nostro, gli stessi tratti del nostro volto. Perché tra
Napoli e il Cilento, o meglio, tra il Cilento e Napoli, è (ed è stata) la
nostra vita, con gli stessi sogni d’America e d’Europa, e le stesse speranze, e
la stessa sconfitta.
E così
cresce, lentamente cresce, un affetto intenso per Gesualdo e Tarsio, per Carlo
e Antonino.
Il loro
profilo si delinea e scolpisce, finalmente vero, nello sguardo dell’Autore che,
tra le macerie del passato, tra cenere di fuochi e rovi e sogni e muri e
pietre, ritrova antichi disegni e fotografie sbiadite, che “accarezzano la sua pietà, perché da essi
sprigiona una luce che s’accende nel presente e diventa ricordo e desiderio” e
amara consapevolezza.
Perché “l’arte è per definizione contro ogni
perdita”.
L’opera
del Giudice Di Lieto mi ha riportato alle sfide di grandi artisti
contemporanei: “al corpo a corpo
Incessante con la storia e le sue tragedie e le sue ferite dolorose” di
Anselm Kiefer, o “al pret-a-porter della
memoria, macerie d’esistenza” delle installazioni di Cristian Boltanski.
Ma più di
ogni altra cosa mi ha fatto andare alle pagine dolenti che Simone Weil dedica
all’agonia e alla scomparsa della Civiltà occitana del dodicesimo secolo nel
Mezzogiorno di Francia.
E
l’intuizione di seguire con lo sguardo la dissoluzione della speranza del
formarsi di una vera civiltà meridionale, attraverso la storia
dell’edificazione, la vita nei secoli e la fine di una casa contadina, specchio
e nostalgia di ogni vita del racconto.
Se il
padre si sposa nel 1958, a conti fatti io dovrei avere, più o meno, gli stessi
anni di Antonino. E posso testimoniare della verità del racconto. A metà degli
anni ’80, gli studi di tecnici rapaci erano letteralmente sommersi di pratiche
“219”. Centinaia. Le voci che si sono levate contro tutto questo sono state
rare e presto messe a tacere. La storia di questo nostro sfortunato paese ne è
una conferma.
La civiltà
meridionale è stata assassinata più e più volte, ogni volta che avrebbe potuto
nascere e rinascere. Per tutto il nostro Mezzogiorno questa è stata un
sventura. Di qui il nostro disprezzo contro il presente.
Eppure:
Grazie al Giudice Di Lieto! Per averci permesso di riconoscerci in chi, come e più
di noi, nel tempo ha creduto e lottato e poi perso.
E’ ancora
Simone Weil a ricordarci che “nella
misura in cui contempliamo la bellezza di quelle vite e di quelle idee con
attenzione e amore, nella stessa misura l’ispirazione di tempi così lontani e
vicini discenderà in noi e renderà a poco a poco impossibile una parte almeno
delle bassezze di cui è satura l’aria che respiriamo”.
Ma vorrei
chiudere queste brevi note ricordando il dialogo finale dello sceriffo Bell di “Non è
un paese per vecchi”. Lo sceriffo racconta di aver fatto un sogno:
C’era mio padre. Ho vent’anni di più di quanti
ne aveva lui quando è morto, quindi in un certo senso, è lui il più giovane. Ed
era come se fossimo tornati tutt’e due indietro nel tempo.
Io ero a cavallo e attraversavo le montagne di
notte, attraverso un passo in mezzo alle montagne: faceva freddo e a terra
c’era la neve, e lui mi superava col suo cavallo e andava avanti, continuava a
cavalcare senza dire una parola: lui era avvolto in una coperta e teneva la
testa bassa: mi ha sorpassato e io mi sono accorto che teneva una fiaccola,
ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi, e il corno delle luce della
fiamma che c’era dentro era del colore della luna.
E nel sogno sapevo che stava andando avanti, per
accendere un fuoco da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio e quel freddo,
e che quando ci sarei arrivato, lo avrei trovato lì.
Poi mi sono svegliato”.
*Antonio Cuono,
architetto, storico dell’arte
Ancora un
commento: e spero non sia l’ultimo. Anche se de La casa sul poggio si sono
interessati in tanti, e non è frequente che in tanti si mettano a leggere (e a
scrivere su) un libro. Per giunta di uno sconosciuto. Li ringrazio tutti. Quello
di Antonio Cuono è però un commento che si distacca dalle recensioni, tutte di
pregio, che hanno accompagnato l’uscita del libro. Non poteva essere
diversamente per un uomo, che si interessa di storia dell’arte, dell’arte in
generale e non solo di letteratura, e si rivela, al solo primo approccio, un
uomo di straordinaria cultura. De La casa sul poggio Antonio Cuono pone in
rilievo prima di ogni altra cosa l’aspetto di sfida. Il rilievo non è nuovo.
Più di uno, prima di lui, aveva parlato di sfida, di tentativo ambizioso, di
disegno grandioso “non sempre riuscito”, per un libro che percorre quattro
secoli di storia con tante storie tenute insieme da un filo, la storia di una
casa, la storia di una famiglia. Ma Antonio Cuono parla di sfida in un senso diverso
se cita ad esempio l’opera pittorica di Anselm Kiefer e Christian Boltansky. Non
conoscevo, prima di leggere le note di Antonio Cuono, Anselm Kiefer e Christian
Boltansky. Mi sono aggiornato. Si tratta di due grandi dell’arte contemporanea,
il primo tedesco, il secondo francese, quasi quasi della mia stessa età, che non
si è lontani dal vero se li si considera sovversivi. Entrambi sovvertono
infatti i canoni dell’arte tradizionale non foss’altro per i materiali usati,
che vanno dal colore alla lacca ai fiori, dalla carta al piombo al vetro, dalle
vesti alle foto alle reliquie, e per le dimensioni delle opere che assumono aspetti
colossali e di per sé sorprendenti. Sotto questo profilo, Anselm Kiefer e
Christian Boltanski non hanno nulla a che spartire con la Casa sul poggio. Il
mio libro ha un impianto pur sempre tradizionale, anche se abbraccia quattro
secoli di storia, e lo stile, pur da tutti elogiato, non ha niente di
scioccante e paradossale, tanto è semplice e lineare (almeno così la penso io).
Senonché, Anselm Kiefer e Christian Boltanski hanno un altro tratto in comune,
e consiste in ciò: che fanno oggetto delle loro esperienze artistiche la
memoria, anche quando si tratti di memoria scomoda, e riporti alla mente
periodi dolorosi che nessuno vorrebbe ricordare (Kiefer), anche quando si
tratti di memoria del quotidiano e faccia solo rivivere “macerie d’esistenza”
(Boltansky). Sotto questo profilo, capisco l’accostamento che Antonio Cuono ha
voluto fare tra le opere di Anselm Kiefer, Christian Boltanski e La casa sul
poggio. Perché anche il mio libro è un libro di memorie, memoria storica del
passato (la rivoluzione partenopea del 1799, le migrazioni di fine ottocento: i
“sogni d’America e di Francia” di Antonio Cuono), memoria storica più recente
(l’esperienza del dopo terremoto dell’80, la fine della società contadina) dove
più emerge l’aspetto di denuncia (può parlarsi di romanzo-denuncia?) che io considero tratto peculiare del libro. Tratto
sul quale vedo tutti d’accordo, per quel legame evidente tra presente e
passato, sul quale spesso mi soffermo, e quel precorrere i tempi che
caratterizza molte figure del libro. Memoria, denuncia, necessità di salvare
dall’oblio la nostra storia, recente ed antica. Necessità, soprattutto per i giovani (che inviterei a leggere almeno
una parte del libro, se non vogliono leggerlo tutto), di scoprire e tener viva
la storia dei padri, perché la storia del presente sempre si congiunge alla
storia del passato, e perché i giovani sono sempre destinati a ritrovare i
padri, né più né meno come il figlio ritrova, o è destinato a ritrovare il
padre nel sogno dello sceriffo Bell, nel libro di Cormac Mc Carthy. Memoria,
denuncia, necessità di salvare la nostra storia, perché ci aiuti a capire, fors’anche
a superare “le bassezze dell’aria che respiriamo” (Simone Weil, sempre citata
da Antonio Cuono). A proposito di Simone
Weil, della quale qualcosa ho letto (anche se di tutt’altra natura), io non so
se, e fino a che punto, la Weil fosse pessimista. Io lo sono, e questo traspare
nel mio libro dall’inizio alla fine. Non vorrei però trasmettere il mio
pessimismo. Del quale non c’è ragione di essere fieri. Soprattutto non vorrei
trasmettere il mio pessimismo ai giovani, quei pochi o quei tanti che vorranno
accettare il mio invito a leggere il libro. Perché I giovani sanno, o debbono
sapere che, cavalcando in una notte oscura e piena di pioggia, prima o poi
troveranno “un fuoco acceso in mezzo a quel buio e a quel freddo”, e che,
accanto a quel fuoco, ritroveranno, solo ed impaurito, un cavaliere perduto nel
sogno di una lontana notte di tanto tempo fa (Antonio Cuono).
Michele Di Lieto
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