Quando l’invisibile abbandona il mondo quotidiano, allora il mondo visibile non può più alimentare la vita, perché la vita non ha più il suo sostegno invisibile. Allora il mondo ti dilania. Non è forse questo che ci insegnano la decadenza e la rovina delle culture tribali, una volta derubate dei loro spiriti in cambio di beni di consumo? La compresenza di visibile e invisibile è ciò che alimenta la vita. Noi arriviamo a riconoscere la straordinaria importanza dell’invisibile soltanto quando ci lascia soli, quando ci volge le spalle e scompare come Huldra nella foresta, come Yahwè sul Golgota.
Il grandioso compito di una cultura che voglia alimentare la vita, dunque, consiste nel mantenere gli Invisibili attaccati a sé, gli dei sorridenti e soddisfatti: nell’invitarli a rimanere con riti propiziatori e cerimonie; con canti e danze, addobbi e litanie; con feste annuali e commemorazioni: con grandi dottrine come quella dell’Incarnazione e con piccoli gesti intuitivi, come toccare legno, sgranare il rosario, tenere addosso una zampa di coniglio o un dente di squalo: o appendendo il mezuzoth allo stipite della porta, o un portafortuna sopra il cruscotto, o deponendo in silenzio un fiore sopra una pietra appena lucidata.
Queste cose non c’entrano con la fede, e dunque non hanno a che vedere con la superstizione. Si tratta soltanto di non dimenticare che gli Invisibili possono andarsene, lasciandoci soltanto, per coprirci le spalle, i rapporti umani. Come dicevano i greci dei loro dei: non chiedono molto, soltanto di non essere dimenticati. I miti mantengono invisibilmente tra noi il loro regno daimonico.
James Hillman
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